Le ragioni economiche che spingono la strategia cinese, gli obiettivi, la struttura finanziaria che la sostiene, i rischi della ‘trappola del debito’ in cui già sono caduti alcuni Paesi: la Cina ridisegna il modello di globalizzazione
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il presidente cinese XI Jinping hanno firmato a Roma il 23 marzo scorso un importante Memorandum d’intesa tra Italia e Cina sulla Belt and Road Initiative (BRI), un enorme programma di investimenti cinesi in infrastrutture lungo la cosiddetta Via della Seta: una definizione che comprende diverse antiche rotte commerciali, terrestri, marittime e fluviali di circa 8.000 chilometri, lungo le quali fin dai tempi di Erodoto si sono snodati gli scambi culturali e commerciali tra Oriente e Occidente. La firma del Memorandum ha reso la visita di Xi particolarmente attesa e rilevante.
I media ne hanno ampiamente seguito la cronaca e discusso, per la magnitudine del progetto – in termini di portata economica e di durata temporale – ma soprattutto perché l’Italia è il primo Paese del G7 a partecipare ufficialmente alla BRI, e questa partnership potrebbe modificare la politica estera e mettere in crisi la storica alleanza con gli Stati Uniti – lasceremo da parte in questa analisi la questione della rete 5G perché articolata e meriterebbe un articolo a sé.
One Belt One Road
Nel settembre del 2013 Xi Jinping ha tenuto un discorso in Kazakistan, all’università di Nazarbaev, dal titolo suggestivo: “Promuovere l’amicizia fra i nostri popoli e lavorare insieme per creare un luminoso futuro” (1). Vi sottolineava che “per forgiare legami economici più stretti, migliorare il livello di cooperazione ed espandere lo spazio di sviluppo nella regione euroasiatica, dovremmo scegliere un approccio innovativo e unire gli sforzi per costruire una cintura economica lungo la Via della Seta. Potremmo iniziare con investimenti in singole aree e congiungerle nel tempo per connettere l’intera regione”.
Il mese successivo, in occasione del meeting dei leader dell’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation, un organismo nato nel 1989 per favorire la cooperazione economica nelle aree del sud-est asiatico e dell’Oceania), Xi ha rimarcato come la regione ha costituito un importante snodo nelle rotte marittime della Via della Seta fin dai tempi antichi, e che la Cina intendeva approfondire il livello di cooperazione con l’ASEAN (Association of Southeast Asian Nations) utilizzando fondi messi a disposizione a questo scopo per stabilire una solida partnership in vista della costruzione di una nuova Via marittima della Seta (2).
Oggi il progetto strategico di sviluppo del governo cinese, i cui connotati si sono delineati negli anni seguenti (e stanno tuttora definendosi) si configura come un piano di investimenti in infrastrutture che coinvolge 152 Paesi e organizzazioni disseminati fra l’Europa, l’Asia, il Medio Oriente, l’America latina e l’Africa.
La BRI è formata da due componenti distinte, la Silk Road Economic Belt, cui fanno capo gli investimenti in infrastrutture lungo le strade dell’antica Via della Seta, per collegare la Cina all’Asia centrale e all’Europa via terra; e la Maritime Silk Road, che comprende invece gli investimenti necessari a ricostruire e potenziare le infrastrutture lungo le rotte marittime che connettono il sud-est asiatico con i Paesi del Golfo, il Nord Africa e l’Europa. Sono stati inoltre progettati sei ulteriori corridoi economici per connettere alla Belt and Road alcuni Paesi che non erano in origine attraversati dalla Via della Seta, ma considerati strategici dal governo cinese, co-me il Venezuela e l’Australia.
La BRI si configura dunque come un network omnicomprensivo nei settori dei trasposti e delle comunicazioni, composto da ferrovie, autostrade, porti, rotte aeree e marittime, oleodotti, gasdotti e linee elettriche (vedi Figura 1), che dovrebbe funzionare da catalizzatore per grandi cluster industriali, le cui attività si allargherebbero a macchia d’olio nei settori delle costruzioni, della metallurgia, dell’energia, della finanza, delle comunicazioni, della logistica e del turismo, creando un corridoio economico integrato che collegherà il sud-est asiatico (“il motore economico del mondo”) con l’Europa, creando nuove opportunità di crescita e conducendo alla formazione di nuove aree commerciali nell’aria dell’est, dell’ovest e del sud dell’Asia. I Paesi coinvolti dall’iniziativa, secondo la Banca mondiale, costituiscono nel complesso oltre il 30% del Pil globale, il 62% della popolazione e il 75% delle riserve di energia a oggi conosciute (3). Le cifre di cui parla il governo cinese sono impressionanti: 3 bilioni (tre milioni di milioni) di dollari complessivi, di cui circa 100 miliardi di dollari all’anno fino al 2026 (4), il che rende la BRI la più importante strategia di sviluppo mai concepita.
Il denaro verrà erogato da banche sostenute dal governo centrale cinese, da imprese statali cinesi e da alcune amministrazioni locali cinesi, cui sono stati attribuite quote del Fondo costituito appositamente per l’implementazione dell’iniziativa e che si stanno impegnando attivamente per reperire progetti da finanziare. Ma il leading player è senza dubbio rappresentato dalla Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB), la risposta cinese alla Banca mondiale, inaugurata nel gennaio del 2016 dalla Cina (che fa la parte del leone con una quota compresa fra un terzo e la metà dei finanziamenti erogati) insieme ad altri 57 Paesi, e che ha il suo quartier generale a Pechino (5).
We have a dream
Wang Yiwei è un accademico di fama internazionale: è titolare della cattedra Jean Monet, professore alla School of International Studies e senior fellow al Chongyang Institute for Financial Studies della Renmin University of China (RDCY, inaugurato nel gennaio 2013 e istituito grazie a una donazione di 200 milioni di dollari dall’attuale presidente del Shanghai Chongyang Investment Group, Qiu Guogen, un ex alunno della Renmin University); Wang Yiwei si può considerare un intellettuale organico al governo cinese, nonché uno dei più ferventi estimatori della BRI. Nel suo articolo intitolato China’s New Silk Road: a case study in EU-China relations (6), pubblicato dall’ISPI nel 2015 all’interno del rapporto Xi’s policy gambles: the bumpy road ahead, Wang Yiwei descrive dettagliatamente il punto di vista cinese sull’enorme opportunità che la BRI costituirebbe per il Vecchio continente, e mette in atto un tentativo di seduzione senza precedenti: più che un corteggiamento, potremmo definirlo un adescamento (sebbene di gran classe).
La Cina non è la sola nazione ad aver pensato a una rinascita della Via della Seta, scrive Wang Yiwei: proposte in questo senso sono state avanzate dal Giappone nel 1998 limitatamente all’Asia centrale, dagli USA nel 2011 per l’Asia meridionale e centrale (TPP), dall’India nel 2014 per ristabilire i legami storici con i Paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano e da altri Paesi come il Kazakistan e la Corea. Tuttavia, sottolinea l’accademico, la portata economica e diplomatica di questi programmi non sarebbe paragonabile al sogno cinese di promuovere la creazione di “una comunità orientata allo sviluppo cementata da un unico destino”.
La BRI sarebbe superiore sotto tutti gli aspetti anche all’antica Via della Seta: dal punto di vista geografico, perché raggiungerebbe Mosca a nord, i Paesi del Pacifico meridionale a sud, l’America Latina a est e la Germania a ovest; dal punto di vista infrastrutturale, perché non si tratterebbe più di una rotta per il commercio ma di una interconnessione spaziale, economica e culturale complessiva a misura del XXI secolo; e infine dal punto di vista del significato, perché l’antica Via della Seta era stata creata per permettere all’Europa di arrivare in Cina ed esportarne i prodotti, mentre oggi è la Cina che spalanca le sue porte al mondo, in una nuova strategia di apertura “a tutto tondo” verso l’Occidente.
L’obiettivo della BRI è ridisegnare il modello di globalizzazione attuale e promuovere la nascita di un nuovo ordine economico, spostando verso Est l’epicentro dell’egemonia mondiale, attraverso la costituzione di un enorme mercato euroasiatico libero da dazi doganali, l’Eurasian Continental Free Trade Area. Nella grandiosa – e poetica, a modo suo – visione cinese, la BRI rappresenta le ali che faranno decollare l’economia asiatica, ali necessarie affinché i futuri partner mettano da parte le proprie personali preoccupazioni strategiche in nome dello sviluppo: “When economic development is concerned it is easier to achieve a win-win situation without causing excessive strategic concerns”.
C’è una trasparenza, quasi una naiveté nella narrazione cinese che lascia di stucco: quando in gioco ci sono i soldi, tanti, tantissimi soldi – dicono i cinesi – è più facile raggiungere soluzioni che facciano contenti tutti. “Le potenze extraterritoriali come la Russia, gli Stati Uniti, l’Europa e il Giappone non verranno escluse ma tollerate, per enfatizzare lo spirito di cooperazione internazionale e le caratteristiche di pubblica utilità, di modo che [la BRI] non rappresenti una strategia unilaterale cinese. Davvero il progetto One Belt One Road sta mettendo in pratica alla lettera l’idea che il sogno della Cina è lo stesso sogno di una vita migliore comune a tutte le genti del mondo”.
Il piano Marshall
Nonostante la millantata universalità del progetto, è evidente e inevitabile che il tentativo di riformare l’ordine mondiale non può piacere a tutti, e in particolare alle nazioni che hanno costruito la loro prosperità sulla situazione geopolitica attuale, Stati Uniti in primis. Ma la Cina vuole chiarire subito alla Ue che qui non si tratta di cambiare squadra, si tratta di cambiare gioco. Dice Wang Yiwei: anche gli USA, alla fine della seconda guerra mondiale, hanno teso una mano all’Europa con il Piano Marshall, per fornire aiuti finanziari alle nazioni devastate dal conflitto, partecipare alla ricostruzione europea ed evitare i default nazionali, ma hanno subito approfittato della propria posizione di superiorità economica per imporre le regole di Bretton Woods, e ciò ha permesso loro di diventare i principali beneficiari del piano di aiuti.
E se è vero che la Cina attuale, come gli USA del dopoguerra, desidera rilanciare la propria immagine globale e la propria influenza, continua Wang Yiwei, ciò non deve avvenire a scapito delle sorti dei propri partner: la BRI non è stata pensata come un piano unilaterale ma come una strategia di sviluppo inclusivo (inclusive development), ragion per cui a tutti i partecipanti sono assicurati miglioramenti economici, stabilità finanziaria e benessere sociale. Inoltre, sottolinea Wang Yiwei, il governo cinese non ha nessun interesse nel condizionare politicamente i propri alleati nel progetto, come invece ha fatto l’America nel dopoguerra con il piano Marshall, allo scopo di contenere il blocco sovietico e la crescita dei partiti comunisti nazionali.
Transcending the West and discovering the world
In sostanza, dice Wang Yiwei, One Belt One Road rappresenta per l’Europa la possibilità di andare oltre la vecchia alleanza a Ovest e di riscoprire il mondo, con innumerevoli vantaggi, primo fra tutti quello di ristabilire il proprio primato culturale. Storicamente, il continente euroasiatico – le cui due grandi civiltà, quella occidentale e quella orientale, erano collegate proprio dalla Via della Seta – ha rappresentato il cuore della civilizzazione mondiale, e così è stato fi-no alla nascita dell’Impero Ottomano. Oggi, l’Europa si confronta con l’opportunità unica di ritornare al centro del mondo, realizzando il sogno dell’Eurasia, quella che Halford Mackinder (il fondatore della geopolitica) chiamava the world island, la cui integrazione riporterebbe gli Stati Uniti (the isolated island) in posizione marginale, ristabilendo l’antico ordine mondiale e gli antichi splendori. Per usare le parole di Wang Yiwei, “l’Europa dovrebbe cogliere al volo questa seconda possibilità di realizzare il proprio sogno, che è complementare al sogno cinese e viene da esso rafforzato”.
Inoltre, alla Cina sembra ormai evidente che l’Europa non riuscirà a portare a termine il proprio percorso di integrazione se la prospettiva rimarrà quella attuale. La BRI, invece, trasformerà l’Europa centrale e orientale (in particolare la Polonia, la Grecia, i Balcani e l’Ungheria) nel nuovo portale europeo cinese, e favorirà la pacificazione con la Russia, di importanza fondamentale per la stabilità del Vecchio continente.
Last but not least, il governo cinese fa brillare davanti agli occhi di questa Europa dilaniata politicamente ed economicamente impoverita un nuovo sogno coloniale: i Paesi dell’Africa occidentale, dell’Oceano indiano e dell’Asia centrale avrebbero infatti bisogno dell’esperienza europea e delle sue pratiche di governance, scrive Wang Yiwei. Sotto l’egida della BRI vi saranno numerose opportunità per la Cina e la Ue di uno “sviluppo collaborativo” (cooperatively develop) in questi nuovi mercati. “L’esperienza, gli standard, l’influenza storica e culturale dell’Europa sono considerati dalla Cina di grande valore. One Belt One Road promuove lo spirito della Via della Seta, cioè la solidarietà, la fiducia reciproca, l’uguaglianza e i benefici comuni, la tolleranza, la possibilità di imparare gli uni dagli altri e la collaborazione win-win. Quando questo spirito si connetterà con lo spirito dell’Europa ed entrerà in risonanza con la potenza normativa della Ue, l’influenza cino-europea aumenterà in modo significativo”.
Il regulatory capitalism e il modello cinese
Si comprende ora come quella dichiarata dagli Stati Uniti alla Cina dall’Amministrazione Trump (e da Obama prima di lui) sia ben di più di una guerra commerciale: quel che c’è in gioco è la leadership del capitalismo globale, e gli USA non possono permettersi di perderla. Cosa avverrebbe del debito americano se una nuova potente alleanza asiatica, o addirittura un colosso eurasiatico, sfidasse la supremazia del dollaro?
E se perdesse i suoi accessi privilegiati alle materie prime? Dietro il gigantesco piano di investimenti in infrastrutture traspare la volontà egemonica della Cina, che dal commercio e dalla finanza si dilaterebbe inevitabilmente alla sfera politica e militare. Per questa ragione gli Stati Uniti non hanno partecipato al capitale della AIIB, cogliendo immediatamente nella nuova istituzione la sfida all’architettura nata nel 1944 a Bretton Woods. Obama, in verità, aveva anticipato le mosse cinesi quando, nel 2011, aveva ideato e promosso il TPP (Trans-Pacific Partnership), un trattato di partnership commerciale nel sud-est asiatico per il contenimento dell’influenza cinese che purtroppo (per gli USA) non ha mai visto la luce.
Richard B. Stewart insegna legge alla New York University ed è uno dei maggiori esperti mondiali sui trattati internazionali mega-regionali per la regolamentazione del commercio e degli investimenti. Nel suo articolo TPP’s Regulatory Capitalism and China’s Belt and Road Challenges (7) afferma che la decisione del Presidente Trump di non firmare la nuova versione del TPP, il TPP-11 (firmato da Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam), incoraggerà la Cina a respingere attivamente il modello di regulatory capitalism – quello di una politica economica globale basata su regole amministrative che non dipendono dal sistema legislativo o giudiziario – su cui si sono fondati gli ultimi quarant’anni di preminenza globale americana.
La domanda che incombe sul futuro del sistema economico mondiale è dunque quali passi istituzionali e legali la Cina intraprenderà per trarre vantaggio dai suoi investimenti in infrastrutture nella Belt and Road Initiative. È probabile che assicurerà un accesso preferenziale alle aziende cinesi nei Paesi che ospiteranno la nuova Via della Seta, e che svilupperà un sistema collegato di leggi e accordi governativi per spingere il gioco in favore dei propri interessi. Per esempio Pechino sembra decisa a istituire tribunali speciali e poli arbitrali all’interno del suo territorio, deputati a risolvere le dispute transnazionali collegate alla BRI, con l’obiettivo di gestire i contrasti in istituzioni controllate dal governo cinese piuttosto che nelle sedi stabilite dal sistema internazionale.
Ma, dopotutto, l’Europa (o meglio, i Paesi in cui il sogno europeo si è trasformato in un incubo, come l’Italia) potrebbe dire: che importa. Gli Stati Uniti hanno sfruttato per decenni la loro rendita di posizione, come dice Wang Yiwei e forse, insieme alla Cina, potremmo tornare a contare qualcosa. E, anche se così non fosse, i finanziamenti di Pechino piovono su magre finanze e, vista la gabbia imposta nell’eurozona ai finanziamenti pubblici, dove altro potremmo trovare il denaro per gli investimenti in infrastrutture o in ricerca, o per ridare slancio all’occupazione?
I rischi della partnership
La Banca Mondiale (Bm), da parte sua, pur non potendo negare la magnitudo dell’iniziativa, pone l’accento sui rischi della partecipazione al progetto (8): richiederà ai Paesi ospitanti di stabilire nuove regole e riforme istituzionali, afferma, e alcune delle infrastrutture progettate dalla BRI potrebbero essere difficili da implementare e creare problemi di sostenibilità fiscale, impatto ambientale o rischi sociali. Anche la riduzione dei dazi potrebbe comportare uno shock economico e rendere necessarie politiche di aggiustamento. Infine, conclude la Banca mondiale, per realizzare le opportunità di crescita e di riduzione della povertà offerte dalla BRI bisognerebbe creare le adeguate condizioni macroeconomiche e le istituzioni di supporto necessarie, e in ogni caso i partner dovrebbero essere consapevoli che i risultati varieranno sia da Paese a Paese che all’interno dei gruppi sociali nazionali sulla base delle condizioni di partenza e delle politiche messe in atto.
Il punto è che la Banca mondiale è parte in causa: l’Asian Infrastructure Investment Bank creata dalla Cina rischia di intaccare la sua egemonia finanziaria, e nella Bm gli Stati Uniti detengono una quota di capitale, e quindi di voto, significativamente maggiore rispetto a tutti gli altri Paesi membri dell’istituzione (9). Ciò non toglie, tuttavia, che accettare l’invito cinese potrebbe avere risvolti negativi, che qualche partnership sta già rivelando.
Per comprendere come ciò sia possibile, bisogna tornare indietro, alle ragioni che hanno spinto Pechino ad adottare una strategia di sviluppo di questo tipo. A partire dal 2012 il governo cinese ha iniziato a promuovere un obiettivo di crescita più contenuto rispetto al passato, pari al 6,5%, definendo il nuovo target new normal. Tale riduzione, si diceva, avrebbe permesso di aumentare la stabilità e riorientare le risorse verso l’interno, migliorando le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini cinesi.
Tuttavia, in contrasto con le dichiarazioni pubbliche, lo Stato ha continuato a perseguire alti tassi di crescita, finanziando una massiccia urbanizzazione che ha creato un vero e proprio boom nel settore delle costruzioni. Sono state edificate strade, ferrovie, aeroporti, centri residenziali e commerciali (che hanno dato vita a delle vere e proprie città fantasma, data l’impossibilità della domanda interna di assorbire l’eccesso di offerta), e l’espansione è stata finanziata con una rapida crescita del debito (10).
In particolare a impennarsi è stato l’indebitamento delle aziende (vedi Grafico 2), ma anche quello delle amministrazioni locali e delle famiglie è cresciuto in modo consistente. Un importante effetto collaterale del boom immobiliare è stato che le imprese, per far fronte ai piani del governo, hanno dovuto aumentare la scala di produzione, il che ha dato origine a gravi problemi di sovracapacità. Xin Zhang della East China Normal University of Shangai (11) sottolinea che i nove settori tradizionali dell’economia cinese (acciaio, cemento, vetro, alluminio, carbone, costruzioni navali, energia solare, energia eolica e petrolchimico) sono quelli che più risentono dell’eccesso di capacità produttiva e sono tutti collegati all’energia, alle grandi opere infrastrutturali e all’edilizia.
Il bisogno di una nuova strategia
Tale situazione ha iniziato a spingere bruscamente verso il basso i tassi di rendimento, come numerose ricerche condotte in Cina e all’estero hanno dimostrato. Dal 2015, lo spettro della fuga di capitali ha iniziato ad aggirarsi nell’economia cinese, al punto che la Banca centrale ha dovuto bruciare 1 bilione delle sue riserve valutarie per difendere il tasso di cambio dello yuan. Di conseguenza, è diventato sempre più improbabile che Pechino riuscisse a stabilizzare la crescita mantenendo la vecchia strategia di sviluppo: di qui la necessità di cambiare strada.
La BRI rappresenterebbe dunque il tentativo da parte del governo cinese di risolvere i problemi di sovracapacità produttiva, surplus di capitale, minori opportunità di investimento, debito in crescita e diminuzione dei rendimenti attraverso l’espansione geografica delle attività e dei processi economici. Il punto è che i famosi investimenti di cui si compone la BRI sono in sostanza prestiti concessi dalle banche di sviluppo cinesi a Paesi terzi e, come ogni altro prestito, vanno ripagati con gli interessi, a prescindere dai risultati economici ottenuti.
La trappola del debito
L’autostrada Bar-Boljare in Montenero ne è un esempio. L’opera è stata costruita dalla China Road and Bridge Corporation (CRBC) con un prestito di 809 milioni di euro erogato dalla Exim Bank of China (12). Il Fondo monetario internazionale (FMI) – altra parte in causa come la Banca mondiale e per le medesime ragioni sopra riportate, su questo non c’è dubbio e occorre tenerne conto nell’analisi delle sue valutazioni – afferma che, senza la costruzione dell’autostrada, il debito del Montenero sarebbe sceso al 59% del Pil invece di toccare il 78%, come è avvenuto nel 2019, e la prosecuzione dei lavori metterà ulteriormente a rischio la sostenibilità del debito.
Questo è il caso tipico di molti progetti finanziati dalla BRI: le infrastrutture sono edificate da compagnie statali cinesi, utilizzando per lo più lavoratori e materiali cinesi (su cui Pechino impone non vengano applicati Iva o dazi), con una banca di sviluppo cinese a cui il Paese ospite deve ripagare capitale e interessi, e alla fine al partner potrebbe non restare nemmeno la possibilità di sfruttare commercialmente l’opera.
Emblematica è stata la vicenda dello Sri Lanka, il cui governo è stato costretto a cedere la gestione del porto strategico di Hambantota alla Cina con un contratto di 99 anni per non essere riuscito a ripagare il debito di 8 miliardi di dollari sottoscritto con le società cinesi. Anche le nazioni africane, che hanno visto una rapida espansione dell’attività industriale cinese sotto l’egida della BRI, sono esposte a grandi rischi in termini di sostenibilità dei deficit: le economie dei Paesi ricchi di risorse naturali, infatti, sono esposte più di ogni altre alle fluttuazione dei prezzi delle materie prime.
Quando le quotazioni scendono le entrate nazionali si comprimono e i tassi di cambio precipitano, rendendo sempre più difficile ripagare i prestiti contratti con i Paesi stranieri. La Tanzania ha dovuto sospendere nel 2016 la costruzione del porto di Bagamoyo, uno dei progetti della BRI, per mancanza di fondi. Il porto era in origine un investimento congiunto fra la Tanzania e la China Merchants Holding, ma il Paese ha dovuto cedere le sue quote al socio cinese, perdendo così, insieme alla proprietà, anche tutti i diritti di sfruttamento dell’infrastruttura. Dopo queste vicende alcuni Paesi, fra cui la Malesia (che lo scorso agosto ha annullato la costruzione della East Coast Rail Link, del valore di 20 miliardi di dollari, e di due gasdotti del valore di 2,3 miliardi [13]), stanno cancellando o riducendo i propri impegni nella BRI. Ma il caso più delicato, soprattutto per le possibili ripercussioni internazionali, è quello del Pakistan.
Il CPEC
China-Pakistan Economic Corridor (CPEC), descritto mirabilmente dal si-to del governo come “a journey towards economic regionalization in the globalized world”, “a hope of better region of the future with peace, development and growth of economy” (14) è rappresentato da una serie di infrastrutture in via di costruzione (autostrade, ferrovie, condotte energetiche) per collegare il Porto di Gwadar in Pakistan con la regione cinese dello Xinjiang. Il corridoio è considerato essenziale per le relazioni Cina-Pakistan, sarà lungo 2.700 km e il suo costo è lievitato nel 2017 dai 46 miliardi di dollari iniziali a 62 miliardi.
Il progetto è stato presentato dal governo di Islamabad, perciò l’onere di ripagare il prestito grava sulle spalle del Pakistan, mentre le aziende appaltatrici, così come le attrezzature, i materiali da costruzione e la forza lavoro, e soprattutto gli investitori, cioè le banche che finanziano l’operazione (principalmente la Exim Bank Of China e la China Development Bank) saranno cinesi (15). Il capitale necessario alla costruzione delle infrastrutture di trasporto verrà erogato dalla Cina sotto forma di prestiti a tassi che vanno dal 2 al 5,2%, mentre per quanto riguarda gli investimenti energetici (la parte più sostanziosa dell’accordo) la situazione è più complessa, perché si tratterebbe di una forma particolare di FDI (Foreign Direct Investments, cioè investimenti diretti dall’estero).
Normalmente i FDI sono altamente desiderabili perché assicurano l’ingresso di valuta straniera e aiutano a stabilizzare l’economia, ma in questo caso la situazione è praticamente rovesciata: le grandi banche d’investimento cinesi finanzieranno imprese di costruzione cinesi affinché investano nella costruzione di pipeline in Pakistan; il denaro verrà speso per comprare materiale cinese e per pagare manodopera cinese; in cambio degli investimenti nel settore energetico pakistano le aziende investitrici cinesi otterranno una quota dei profitti sotto forma di dividendi in dollari. Inoltre il governo pakistano si è legalmente vincolato ad assicurare agli investitori cinesi la disponibilità di riserve in dollari affinché questi possano ripagare i prestiti ottenuti dalle banche cinesi.
Il Paese, che già soffre di una carenza di riserve nella moneta statunitense, si trova perciò a dover riversare fiumi di valuta pregiata nell’economia cinese, bussando (come già sta facendo) alle porte del FMI, della Banca mondiale e dell’Arabia Saudita per e-vitare la bancarotta. E cosa avverrà nel 2037-38 se Islamabad, alla scadenza dei prestiti per il CPEC e nel momento in cui dovrà pagare i dividendi agli investitori cinesi, non avesse le necessarie riserve in dollari e dovesse dichiarare il default?
Infine, ciliegina sulla torta, l’accordo per il CPEC prevede anche che il Pakistan rinunci a tassare i 4,42 miliardi di dollari di profitti maturati dalle banche cinesi sui prestiti commerciali erogati, perdendo un piccolo patrimonio in entrate fiscali.
Conclusioni
Il capitale deve generare profitti, questa è la regola d’oro del capitalismo, e dopo trent’anni di crescita a tassi altissimi sia lo Stato che i capitalisti privati cinesi hanno accumulato somme incredibili. Per esempio, le riserve di valuta straniera cinesi che erano pari a soli 2.262 milioni di dollari nel dicembre del 1980 hanno toccato nel giugno 2014 la cifra record di 3.993.212 milioni di dollari (16).
La Cina porta avanti la BRI essenzialmente per accedere a nuovi mercati; favorire i propri investimenti; assicurarsi la fornitura di cibo, risorse ed energia; esportare prodotti e servizi; rafforzare il ruolo di valuta globale della propria moneta; incrementare la propria influenza. Tutte operazioni che prima della Cina hanno attuato e tuttora implementano i Paesi occidentali, Stati Uniti e nazioni europee, attraverso varie modalità, dal colonialismo al Piano Marshall al sistema FMI-Banca mondiale: il capitalismo sempre alle stesse regole risponde, a Est come a Ovest. Nel prendere le decisioni, si tratta di esserne almeno consapevoli.
1) Cfr. https://www.youtube.com/watch?v=dHkNzMjEv0Y
2) Cfr. https://vimeo.com/77520931
3) Cfr. https://www.worldbank.org/en/topic/regional-integration/brief/belt-and-road-initiative
4) Cfr. http://fortune.com/china-belt-road-investment/
5) Cfr. https://www.aiib.org/en/about-aiib/index.html
6) Cfr. https://www.ispionline.it/it/EBook/CHINA.POLICY.2015/CHINA.POLICY_Cap.6_EBOOK.pdf
7) Cfr. https://thediplomat.com/2018/05/tpps-regulatory-capitalism-and-chinas-belt-and-road-challenges/
8) Cfr. https://www.worldbank.org/en/topic/regional-integration/brief/belt-and-road-initiative
9) Cfr. http://www.worldbank.org/en/about/leadership/votingpowers
10) Cfr. http://www.cadtm.org/A-critical-look-at-China-s-One-Belt-One-Road-initiative
11) Cfr. https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/14650045.2017.1289371?scroll=top&needAccess=true
12) Cfr. http://www.cadtm.org/A-critical-look-at-China-s-One-Belt-One-Road-initiative
13) Cfr. https://thediplomat.com/2018/08/malaysias-canceled-belt-and-road-initiative-projects-and-the-implications-for-china/
14) Cfr. http://cpec.gov.pk/introduction/1
15) Cfr. https://www.dailyo.in/politics/china-debt-trap-pakistan-cpec-imf-imran-khan/story/1/28759.html
16) Cfr. http://www.cadtm.org/The-Domestic-Consequences-of-China-s-One-Belt-One-Road-Initiative