Società consumistica, mediatica, voyeuristica: la progenie afasica del Capitale è talmente concentrata sulla propria bulimia consumista da ignorare i meccanismi coercitivi che la alimentano sottotraccia
“La postmodernità significa molte cose diverse per molte persone diverse. Può significare un edificio che ostenta arrogantemente gli ‘ordini’ che prescrivono cosa si adatta a cosa e cosa deve essere tenuto rigorosamente fuori per preservare la logica funzionale dell’acciaio, del vetro e del cemento. Significa un’opera di immaginazione che sfida la differenza tra pittura e scultura, stili e generi, galleria e strada, arte e tutto il resto. Significa una vita che assomiglia sospettosamente a un serial televisivo, e un docudramma che ignora la tua preoccupazione di mettere da parte la fantasia rispetto a ciò che ‘è realmente accaduto’. Significa licenza di fare tutto ciò che si può desiderare e il consiglio di non prendere troppo sul serio ciò che si fa. Significa la velocità con cui le cose cambiano e il ritmo con cui gli stati d’animo si succedono l’un l’altro in modo da non avere il tempo di ossificarsi nelle cose. Significa rivolgere la propria attenzione in tutte le direzioni contemporaneamente, in modo che non ci si possa fermare su nulla per molto tempo e che nulla possa essere guardato da vicino. Significa un centro commerciale traboccante di merci il cui uso principale è la gioia di acquistarle; e un’esistenza che sembra una reclusione a vita nel centro commerciale. Significa l’esilarante libertà di perseguire qualsiasi cosa e la sconcertante incertezza su ciò che vale la pena perseguire e in nome di cosa la si dovrebbe perseguire.” Zygmunt Bauman
Zombi di George Romero (1978) comincia in medias res. Comincia che l’epidemia zombie si è già diffusa. Comincia con il caos in una stazione televisiva dove due esperti dibattono a vuoto sulle misure di contenimento. Chissà in virtù di quale congiuntura astrale i morti non muoiono davvero, a meno che non si stacchi loro la testa o gli si faccia esplodere il cervello. Non a caso: a partire dal primo degli zombi romeriani il cervello si palesa come la sede ontologica a perdere del semi-vivente. Lo zombi non agisce più sotto l’influsso malefico della tradizione haitiana, agisce in apparente autonomia ma senza precise ragioni, epitome cioè di un’alienazione concettuale: dagli zombie-schiavi assoggettati al volere dello stregone agli zombi a-teleologici della nuova schiavitù capitalistica. Secondo Rocco Ronchi (Zombie outbreak, Textus, L’Aquila, 2015) una perfetta rappresentazione marxiana di forza-lavoro:
[Gli zombi] non sono definiti da nessun’altra caratteristica se non dalla capacità astratta di lavorare per produrre valore. Non pensano, non parlano, non socializzano, non hanno una vita privata, neppure quella residuale che era concessa al proletariato inglese della prima rivoluzione industriale.
L’archetipo del non-morto si affranca in questo modo dalla propria accezione orrifica, convertendosi nella configurazione politica del semi-vivo, cioè in emblema di asservimento neocapitalista, di ingranaggio interno e reificato alla catena produttiva del Sistema. Lo zombi diventa essere altro da sé in quanto parte inconsapevole del processo di produzione, e in quanto – più in senso lato – indotto alla reiterazione del consumo indifferenziato di merci. Un’ampia parte dello Zombi di Romero ha luogo, non a caso, in un ipermercato, al cui interno i morti viventi sono richiamati dalla mera pulsione consumista che li caratterizzava da vivi. Il consumatore inconscio e bulimico di prodotti, ostaggio dell’induzione mediatica, trova nello zombi romeriano la sua rappresentazione più efficace. Un simbolo dell’homo consumens baumaniano, affatturato dai brand, ossessionato dall’idea effimera di possesso, enunciato dentro metafora di zombie: la progenie (post)umana del Capitale, omologata nei desideri (il nuovo modello di smartphone, l’ultimo modello di auto, l’ultima moda, e persino le mete, i linguaggi, i passatempi di tendenza), sprovvista di spirito critico, avalutativa, silente, succube della pubblicità e degli abbagli liberisti. Il nugolo di morti viventi che in Zombi assedia il supermercato è attratta dalle merci al pari dei corpi concretati in merce dei sopravvissuti. Segno evidente della cosificazione del corpo umano: tra il corpo-preda dei sopravvissuti e un qualsiasi altro prodotto in vendita nel ipermarket sotto assedio non c’è più alcuna differenza.L’assoluta mancanza di spirito discernitivo della nuova carne zombiesca non riferisce soltanto all’esclusivo ambito lavorativo/consumista ma coinvolge anche il consumo di notizie. In assenza di capacità valutativa, di fronte al martellamento mediatico che veicola l’informazione, la massa-zombi è resa supina nell’accoglimento del messaggio. In Zombi, il racconto dell’epidemia comincia proprio nello studio di un’emittente tv: nella recente circostanza pandemica, la campagna-stampa filogovernativa dimostra come lo schermo fantastico abbia tracimato – adesso e qui – dalla finzione alla realtà globale.
La bulimia dello zombie, il quale non mangia per nutrirsi ma semplicemente per continuare a farlo in una reiterazione pressoché infinita, rimanda poi alla produzione di merce all’interno del sistema capitalistico che domina la società contemporanea. Uno smartphone o un PC, infatti, dopo pochi mesi è subito sostituito da un nuovo modello (‘zombificazione’ della produzione) mentre i soliti consumatori faranno la fila per acquistarlo gettando via il loro vecchio modello anche se acquistato pochi mesi prima (‘zombificazione’ del consumo). (Guy Van Stratten in Gli zombi del capitale, Codice Rosso.net)
I nuovi zombi del capitale costituiscono una massa afasica, desiderante a vuoto. La loro condizione discende dalla coercizione subliminale operata dal sistema politico-informativo globale che li detiene nel loro sotto-stato di afasia progettuale per l’esclusivo interesse delle lobby. Non suoni come monito escatologico, ma ritengo la passività con cui la maggioranza (zombiesca) della popolazione accetta le perversità del Capitale, un segno dell’imminente estinzione della progenie Sapiens avvicendata dalla progenie Zombie. Non soltanto la religione è “oppio dei popoli”. Lo sono anche i dissuasori occulti dal pensiero oppositivo (unanimismo politico, media omologati, pubblicità pervasiva). Per dirla con le parole di Stefano Petrucciani (Marx in dieci parole, Carocci 2021):
Il punto fondamentale dal quale bisogna partire per comprendere il modo in cui Marx delinea la natura del modo di produrre capitalistico è che, a differenza di quando accadeva nelle forme tradizionali di economia, in quella capitalistica la produzione non è finalizzata alla soddisfazione di bisogni sociali già dati, mal al conseguimento di un profitto. Ciò significa che, al termine di ogni ciclo di produzione, il capitale deve essere reinvestito per conseguire successivamente un profitto ancora maggiore e così via all’infinito […]. Per dirla con le parole di Marx, il capitalista, come ‘fanatico della valorizzazione’ costringe ‘l’umanità a produrre per amore di produrre’.
2.
Sono figlio di Zorro e della Fata Turchina di Pinocchio, ex nipotino di Sandokan e della Perla di Labuan. La mia tv era pedagogica, un po’ austera, alquanto naif, in bianco e nero, i miei primi consigli per gli acquisti metabolizzati, i pistolotti autarchici dei Carosello. Sono stato bambino nel cuore degli ‘anni di piombo’; all’epoca della Milano da bere e dei wild boys ero già entrato in punta di piedi nell’età della ragione. Gli anni Ottanta li ho esperiti/subiti col distacco che discende dalla presa di coscienza: molta politica, valanghe di libri, diversi cantautori: Disco bambina e “ti amo-ti aaamo” con me non funzionavano sin da allora. Se proprio devo associarli a qualcosa, gli anni Ottanta mi ricordano le Big Bubble: ipertrofiche, colorate, accattivanti, ma sotto sotto qual è davvero la loro sostanza? Il nocciolo autentico di quel tempo effimero, al di là del fatto che suonava, sfilava, roboava, tirava tardi, si vendeva bene?
Il nocciolo è che già allora, forse, era facile prevedere che sarebbe finita così. Che ci saremmo infine tutti americanizzati, capitalisticizzati. Che saremmo diventati massa zombiesca, cioè massa di morti-vivi consumisti. Cioè progenie vacua, desiderante a salve. Sottospecie reificata, concepita/reputata/blandita apposta per le merci. Era facile prevederlo sin dalla prima volta che film e partite di calcio hanno cominciato a essere interrotti dalla pubblicità. È iniziata in sordina, come ossequioso adeguamento al trend della mercificazione su larga scala televisiva, ed è sfociata nella dittatura del Capitale mediante telecrazia. Significa persuasione occulta. Significa menzogne e indottrinamento. Significa finta-felicità, finta-socialità, finta-realtà, finta-libertà. E liberaci dai social e dai mass media, converrebbe aggiungere al padre nostro. Amen.
Funziona come coi vaccini: o ti adatti alla medietà della social-tecnocrazia (opinioni insulse, reiterazione dell’ovvietà, appiattimento sul luogo comune, idolatria per influencer di basso spessore) o sei nessuno. O produci-spendi dunque esisti oppure sei parte del gruppone degli invisibili. Dei passati di moda, come coloro che individuano nell’eutanasia di Carosello (1977) la fine del mondo dei consumi com’era prima. Prima dell’invasione nefasta di discoteche, yuppie, broker, berlusconismo. I prodromi su scala locale della deficienza/sudditanza liberista del vivere di superficie. Del vivere di falsi sé. Del vivere per guadagnare (se ce la fai, altrimenti cavoli tuoi, liberissimo di vivere di frustrazioni) e per consumare. Del Vivere e pensare come porci, come rigurgita senza mezzi termini il titolo del saggio-testamento del filosofo francese Gilles Châtelet (Meltemi), secondo cui
l’uomo medio appare come il prodotto di una potente ingegneria socio-politica, che è riuscita a trasformare quello che Marx chiamava “il contadino libero d’Inghilterra”, in cittadino-campione, atomo produttore-consumatore di beni e servizi socio-politici. Essere passato da carne da cannone a carne da consenso e alla pasta da infornare è certamente un “progresso”. Ma queste carni si guastano presto: la materia prima consensuale è sostanzialmente soggetta a putrefazione e si trasforma nell’unanimità populista delle maggioranze silenziose, che non è mai innocente. Su questo populismo classico sembra ormai innescarsi un populismo yuppie – tecnopopulismo – che mette bene in mostra la sua postmodernità carnivora, pronta a individuare e a digerire il best of dei beni e dei servizi del pianeta. Il punto di vista tecnopopulista si mette in mostra ormai senza complessi, nella speranza di riconciliare due spiritualità: quella del droghiere dell’angolo e del capo contabile – “i soldi sono soldi” – e la spiritualità amministrativa – un tempo un po’ più ambiziosa – dell’Ispettore delle finanze.
È l’indice dell’estinzione della specie pensante: tutto gira intorno al denaro. Tutto è sacrificabile al denaro. A cominciare dal pensiero critico. Un’umanità omologata nella ripetizione del consumo e della dipendenza (altrettanto consumistica) dai media. Il terzo millennio è l’evo dei cori unanimi. Se ancora non è detto che raggiungeremo l’immunità di gregge, è certo invece che del gregge si è raggiunto l’intruppamento e la stolidità. Opinioni irrilevanti e irrilevanti modi di vivere. Beeeee!!!
Come scrive Mimmo Pichierri a introduzione del saggio di cui sopra:
È questo che è diventato il consumatore del terzo millennio, attore di gozzoviglie insensate, dalle grandi firme alla cocaina, dal cibo alle auto di grossa cilindrata, dall’elettronica agli interventi estetici, dalla pedofilia al bondage; l’ingiunzione al trogolo ha raggiunto il suo successo compiuto con l’e-commerce e le sue comodità, dal momento che qualunque merce può arrivare a casa nostra in un battito di ciglia, nel tentativo indefinito di colmare una foga bulimica senza confini, né merceologici né tantomeno etici: il famoso produci-consuma-crepa si è ormai contratto in un’unica istigazione al godimento infinito, sganciato ormai da ogni sia pur tenue parvenza di autonomia del desiderio […] Il punto significativo qui è la presa d’atto atroce di come l’ottimismo libertario della prima decade del ventennio considerato si sia poi molto presto trasformato in una forma di cinismo spietato e insaziabile, che mentre sponsorizzava una morale improntata al “non bisogna illudersi” e cantava la fine delle ideologie […], di fatto si preparava a occupare tutti i posti di potere e a ridurre il cittadino democratico allo status di consumatore consumato, tanto vorace sulla mensa delle merci e dei servizi quanto cosificato dai sondaggi e reso un semplice numero.
Già negli anni Settanta Franco Battiato individuava la deriva escatologica:
Più diventa tutto inutile, più credi che sia vero. E il giorno della fine non ti servirà l’inglese.
E nemmeno lo smartphone ultimo tipo (acquistato in comode rate, ovvio), se è per questo.
3.
La semantica pornografica oggi è retta dalla luce. Dalla rivelazione luminosa dell’osceno, da ciò che per senso estetico (prima ancora che etico) andrebbe mantenuto occulto. Vale per i genitali in azione dei video a luci rosse, vale per gli smembramenti compiaciuti di certi splatter movies. Vale, estendendo il campo alla società dipendente-digitale, per ogni immagine non fondamentale divenuta pubblica (postata) senza altro scopo se non il mostrare fine a se stesso. Ha ragione Rossano Baronciani quando scrive che “lo sguardo pornografico, in quanto visione del mondo dal punto di vista del buco della serratura, ha (persino, n.d.r.) modificato il modo in cui osserviamo e diamo rappresentazione del cibo. Recentemente è tornata in auge la definizione di food porn”.
Il neologismo indica il cibo “rappresentato in immagini pubblicitarie” che sollecitano voluttà allo stesso modo di attori e attrici in carne e ossa. Per tacere delle auto sportive ad attrattiva erotica, e dei profumi dagli effluvi orgasmici, che perpetrano il loro assedio attraverso i media. Lo sguardo-zombi è uno sguardo svilito di senso: non contempla alcuna evoluzione se non l’abisso della pornografia esistenziale. La progenie zombiesca (soprav)vive come dentro a un romanzo di fantascienza distopica: voyeur e narcisi al contempo: da un lato spiare le vite degli altri, dall’altro elargire scampoli inessenziali di se stessa attraverso i social media. Nuovi media per neo-corpi (neo-cibi, neo-pose, neo-oggetti, neo-paesaggi, neo-divi) eternizzati nei pixel dalla neo-fotografia. L’abbaglio platonico del mito della caverna esteso a gran parte del genere umano: percepire come reale ciò che invece è solo ombra. Parvenza.
Produci consuma crepa è il diktat ideologico che attraversa sotto-traccia la ‘filosofia’ su cui si reggono le società neoliberiste. Non per fare l’apocalittico (però, vivaddio, nemmeno l’integrato): siamo semi-viventi ostaggio delle merci, dalla culla alla bara. Siamo in balia dei brand, dei prodotti, lo siamo al punto di rischiare la transustanziazione di noi stessi in prodotto usa e getta. Gli addetti al marketing – cioè i pianificatori della lobotomia su scala planetaria – imbastiscono strategie di controllo, alienano la libertà di discernimento individuale con la subdola perizia del serpente dell’Eden: sedurre, blandire, indurre all’acquisto (omologato) il consumatore è la mission. In questa caccia indiscriminata al cliente, nulla è lasciato al caso, e stando così le cose niente può più fermare i Mengele dei bisogni coatti. Nell’affaire a infiniti zeri dell’espansione merceologica, ogni mezzo è lecito pur di manipolare i desideri dei consumatori: il sesso, la paura, la celebrità, l’insicurezza, la nostalgia, persino le baggianate new age e le carte fedeltà, all’apparenza tanto innocue (altro che Orwell).
Aveva visto lungo, come al solito, Pier Paolo Pasolini:
Il potere non è più […] clerico-fascista, non è più repressivo. Non possiamo più usare contro di esso gli argomenti – a cui eravamo tanto abituati e quasi affezionati – che tanto abbiamo adoperato contro il potere clerico-fascista, contro il potere repressivo. Il nuovo potere consumistico e permissivo si è valso proprio delle nostre conquiste mentali di laici, di illuministi, di razionalisti, per costruire la propria impalcatura di falso laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità. […] Ha portato al limite massimo la sua unica possibile sacralità: la sacralità del consumo come rito, e, naturalmente, della merce come feticcio.
Nella società tirata a lucido apposta per instillare negli zombi parvenze di finta-felicità, ‘happycracy’è il neologismo-chiave per l’accesso alle coscienze. La psicologia positiva asservita al potere economico ha scoperto che il mantra rampantista del selfie made man è ancora sdoganabile attraverso l’ottimismo a prescindere (l’ottimismo anche contro ogni evidenza) e il lavoro su se stessi. Proliferano e pontificano i guru dell’apparenza entusiastica, gli scienziati dell’uomo-nuovo coincidente con l’homo felix. Dalla caduta del Muro di Berlino sono caduti i baluardi europei dell’anti-imperialismo, compreso quello demiurgico dell’Unione Sovietica. Secondo la vulgata neoliberista sono scemati i motivi per essere grigi-poveri-tristi, sorridere prego: il nuovo lavoratore-zombi, ridotto al rango di consumatore a dimensione unica, deve lavorare-consumare-crepare (semmai), essendo sempre felice di farlo. È un fatto: la felicità (consumistica) è diventato l’obiettivo esistenziale del terzo millennio. È diventato un sollen da cui non è concesso derogare. Alla luce di tutto ciò, happycracy (letteralmente ‘governo della felicità’) può tradursi in maniera più inquietante come ‘dittatura della felicità’. Da quando impera il neo-liberismo (e il diktat consumista sul quale si regge), la predisposizione mentale alla felicità è assurta a imperativo categorico.
[…] La felicità è ovunque: in televisione e alla radio, al cinema e sulle riviste, in palestra, nelle diete e nei consigli per l’alimentazione, negli ospedali, in ufficio e in guerra, a scuola, all’università, nella tecnologia, sul web, nello sport, a casa, nella politica e, ovviamente, sugli scaffali dei supermercati. La felicità permea l’immaginario comune, sta diventando un assillo, ed è raro che passi un giorno senza sentirne parlare o senza leggerne da qualche parte […] La felicità è diventata una mentalità, modificabile con la forza di volontà. È la ricompensa per chi trova la forza interiore e mette in gioco la parte più autentica di se stesso; è l’unica meta in grado di dare un senso alla vita; è il metro per giudicare il valore di una persona, la portata del successo o del fallimento, dello sviluppo psicologico ed emotivo di un individuo […]. (Happycracy. Come la scienza della felicità controlla le nostre vite, Eva Illouz ed Edgar Cabanas, Edizioni Codice)
Il fatto vero è che ci siamo dentro, come si dice, dentro fino al collo. Assuefatti allo status quo, ci sfugge la prospettiva attraverso cui sarebbe possibile oggettivizzare il livello di illibertà raggiunto. Il sistema capitalistico ci ha talmente abituati alla normalità consumistica e all’obbedienza (alle leggi di mercato, al consumo, alla schiavitù tecnologica, all’obsolescenza programmata dei prodotti) che abbiamo derogato da ogni coscienza critica. Lo zombi del Capitale è al tal punto avvezzo ad assecondare gli stimoli dei bisogni imposti che gli sfuggono i meccanismi che sottendono alle ragioni (?) delle sue (non)scelte (persino delle scelte sulla salute). Il libero arbitrio è diventato apparente, di fatto manovrato dalle élite col beneplacito della politica e dell’informazione globale, anche attraverso la dilatazione mistificatoria del concetto di accessibilità culturale di massa: ecco la rivoluzione copernicana dei media 2.0. Il cittadino-zombi qualsiasi è stato assunto al rango ‘partecipativo’ del sistema cultural-pop: la pantomima della celebrità alla portata di tutti. Attraverso i media è scoccata da tempo l’ora del surrogato, del dilettante, dell’interposta persona, della sdoganatura del tarocco, del replicabile/falsificabile ad interim. Decretata la fine degli innocui imbrattacarte, dei pittori e dei poetastri della domenica, alto e basso culturali avviluppati in unicum come l’edera di nillapizziana memoria. È il momento del selfie fotografico, dell’auto-pubblicazione, del twittare compulsivo, del coatto col taglio alla moicana perché si usa tra i più beoti dei calciatori (cioè i ¾), dell’idraulico che canta “amo la luna e amo il sole / sono un pirata ed un signore” e si crede Julio Iglesias, della Jennifer Lopez rionale per vaghissima affinità di lato B con il prototipo, che posta le prove della sua contiguità col mito. La sapeva lunga già Andy Warhol quando vagheggiava di una celebrità alla portata di ognuno: nell’epoca dei talent e dei network sociali i canonici quindici minuti sono diventati format, coazione a ripetere, stile di vita, modo di pensare, alienazione di massa, ‘comunismo’ (finto) culturale, e il fruttarolo un divo perché è andato a litigare a Forum e c’ha una foto assieme a una tronista di Uomini e donne.
Ha ragione la scrittrice e saggista Dubravka Ugrešić quando scrive di “cultura karaoke” (Cultura karaoke, Nottetempo), cioè di cultura fondata sul vuoto, sull’imitazione pedissequa, sullo iato che divide l’insignificante dal talento, il kitsch dall’autoriale, la copia dall’originale. “[…] cantando la canzone che qualcun altro ha reso famosa – sottolinea la Ugrešić – il dilettante ovviamente esprime amore per il proprio idolo […] ma con la sua esibizione spesso goffa e dilettantistica allo stesso tempo lo svaluta.” Tant’è, ma impazzano ugualmente i remake, i sequel, le rivisitazioni, persino in ambito letterario: si parla di fan-fiction (gli adattamenti di romanzi celebri ‘curati’ dai fan) e persino di cell-novels (i romanzi per cellulare), senza contare il radicato fenomeno cosplay (i ‘sosia’ agghindati come gli eroi e le eroine dei fumetti, soprattutto manga) che spopolano in tutto il mondo. A volerla buttare sulla psicoanalisi, alla base della stratificata (s)mania di protagonismo la vecchia angoscia dettata dal dilemma tra essere e non-essere. In altre parole: disseminiamo tracce evidenti (ancora che inessenziali) di noi stessi, per distoglierci dall’idea che un giorno faremo la fine del nostro gatto. Ancora l’autrice di Cultura karaoke:
In tutte le sue manifestazioni, la cultura karaoke unisce narcisismo, esibizionismo, la necessità nevrotica dell’individuo di lasciare un’impronta sulla superficie indifferente del mondo, sia che il malcapitato usi la corteccia di un albero, sia che usi il proprio corpo, internet, la fotografia, un atto vandalico, l’omicidio o l’arte. Alla radice di questa cultura, però, si trova un motivo serio: la paura della morte. Sulla superficie della cultura karaoke balugina la maschera della morte […] è troppo tardi, non si può tornare indietro. Questa è la nostra età gloriosa, l’età del karaoke. Accettiamola, immergiamoci in essa come nelle sabbie mobili. Non c’è bisogno di preoccuparsi, non affonderemo, ma non riemergeremo neanche in superficie. Rimarremo, sopravviveremo. Ad ogni modo, è la sopravvivenza il nostro unico compito in questo mondo. Sure, we will survive.
4.
Anche il termine watch list sbandiera discendenze di tipo liberista: sta infatti a indicare le liste delle attività economiche sotto monitoraggio. Muovendo l’osservazione dall’ambito dei mercati a quello delle progenie zombi, gli esiti non sono dissimili: i social e i nuovi media ispezionano le semi-vite dei consumatori. Un dato che dovrebbe come minimo toglierci il sonno, il grave è che non succede e continuiamo a dormire alla grossa anche da svegli. Il privato della progenie zombiesca è reso pubblico come nemmeno negli auspici della sloganistica anni Settanta. Se Philip Dick fosse ancora vivo starebbe leccandosi barba e baffi. E io sarei il paranoico?, direbbe. Non riusciamo a sottrarci all’oscuro scrutare del Sistema economico: nasciamo, cresciamo, consumiamo, (soprav)viviamo, moriamo da sorvegliati speciali. Lo sguardo occulto della Grande Finanza ci tiene a guinzaglio, con ricadute sulle scelte e la consapevolezza di una specie costretta all’uniformità di branco, ad adeguare il proprio agito in funzione del consenso globale, dello stare al passo, dell’evitare il dissenso. Pena il rigetto sociale.
Sono tempi dispercettivi. Tempi di ibridazioni tra realtà e simulacri di realtà. Disertiamo il reale attirati dal pedagogismo rassicurante della realtà mediatica.
Il linguaggio concettuale (astratto) è sostituito da un linguaggio percettivo (concreto) che è infinitamente più povero: più povero non soltanto di parole (nel numero di parole) ma soprattutto di ricchezza di significato, di capacità connotativa. A causa della lunga esposizione alle immagini televisive, gli spettatori perdono dunque progressivamente la loro capacità di distinguere tra quello che è vero e quello che è falso. (Il tramonto della realtà. Come i media stanno trasformando le nostre vite, Vanni Codeluppi, Carocci, 2018)
Le edulcorazioni pubblicitarie ci mettono del loro. Quanta poetica proto-commerciale è insita nella cartellonistica liberty di Henri De Toulouse-Lautrec? E nelle campagne pubblicitarie choc che Oliviero Toscani firmava per Benetton? Quante micro-vicende di costume sono sottese agli affiche autarchici della propaganda fascista e alla sloganistica naif di Carosello? Per insistere con gli interrogativi pleonastici: quanta forza evocativa, quante sirene del consumismo, quanta psicologia, quanta legge del desiderio, a tergo di un messaggio pubblicitario? Non è per insistere ulteriormente sull’ansiogeno ma la sociologia di una nazione-zombie è decisa anche dal contenuto subliminale del deretano fasciato dai jeans Jesus (“Chi mi ama mi segua”), e dai monologhi dadaisti dei sacerdoti delle vendite televisive. Un saggio del sociologo Vanni Codeluppi correla lo sviluppo del messaggio pubblicitario a quello parallelo dei costumi:
[…] la pubblicità riveste anche un ruolo sociale e culturale estremamente importante. Produce infatti una parte consistente dell’immaginario collettivo, condiziona il contenuto dei messaggi dei media, si propone come una guida per i comportamenti delle persone e gioca un ruolo chiave nella costruzione delle identità sociali e sessuali. Domina inoltre le campagne elettorali della politica e alcune delle più significative aree del tempo libero, come ad esempio lo sport.
Troppo tranchant? Suvvia, chi può dirsi davvero immune dal condizionamento disceso da tormentoni che hanno fatto scuola, e storia?
- L’amaro Cynar “contro il logorio della vita moderna”;
- la biondona di “Chiamami Peroni, sarò la tua birra”;
- il doppio senso dello spot Saila “Io ce l’ho profumato”
E mi fermo a questi pochi esempi.
Quando il farmacista Attilio Manzoni fondò la prima concessionaria italiana di spazi pubblicitari correva l’anno 1863. È stato il prologo di un’invasione progressiva: la pubblicità oggi tracima dalle strade, dalle pagine dei giornali, dalle tv è longa manus di un capitalismo che tracima a sua volta.
5.
Michael Foucault si rasava la testa prima che il gesto diventasse di moda (pessima). Indossava maglioni a collo alto, ma non soltanto di colore nero, come gli esistenzialisti. Si diceva omosessuale ai tempi in cui dichiararlo era più difficile che adesso. Sorrideva spesso. E poi rideva. In modo tonante. Chi lo ha conosciuto bene giura che le sue risate avessero del clamoroso. Pochissimi altri intellettuali come lui, anche sotto questo aspetto. Filosofo. Sociologo. Storico della scienza. Saggista letterario. Spiazzante. Visionario. Libero pensatore e “cattivo maestro”, Michel Foucault è stato legione: uno, molteplice e mai scontato. Parlasse-scrivesse di sesso, potere, Capitale, e persino di Islam, non c’era nulla o c’era molto poco che poteva farlo passare per un tipo convenzionale. Leggete cosa scriveva sull’opera di normalizzazione sotterranea operata dai poteri sulle masse:
I poteri non sono forse legati oggi ad un potere particolare che è quello di normalizzazione? Voglio dire: i poteri di normalizzazione, le tecniche di normalizzazione, non sono, attualmente, una sorta di strumento generale che troviamo un po’ dovunque nell’istituzione scolastica, in quella penale, nelle fabbriche, nelle officine, nelle amministrazioni, come una sorta di strumento generale e generalmente accettato, poiché scientifico, che permetterà di dominare e di assoggettare gli individui? In altri termini, la psichiatria appare come strumento generale di assoggettamento e di normalizzazione degli individui. Ecco in breve qual è per me il problema.
Muovendo dal presupposto che ogni società possiede una sua “politica generale della verità” e che “accetta determinati discorsi che fa funzionare come veri”, Foucault sosteneva che sapere e potere risultano intrinseci e indisgiungibili: l’esercizio del potere genera nuove forme di sapere e il sapere porta sempre con sé effetti di potere (Il sapere come crimine). Ci troviamo cioè al cospetto di un potere impersonale (cioè non derivante da non un soggetto cosciente, né sovrano); un potere non manifesto, subdolo e onnipresente, che opera attraverso meccanismi anonimi in ogni ambito del vivere collettivo. Milioni e milioni di individui uniformati nell’acriticismo, distratti dalla miseria o dall’iper-consumo, incapaci di rendersi conto che le consuetudini di vita attraverso le quali si estrinseca l’attuale stato delle cose occidentale, sono di fatto espressione fraudolenta di un ingranaggio antidemocratico. Pervasivo quanto spersonalizzante. Non fosse pleonastico e non fosse troppo tardi, verrebbe da chiedersi come è possibile essere arrivati a un tale livello di indifferenza dinnanzi alle evidenti contraddizioni del liberismo (il divario crescente tra ricchi e poveri, lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali a beneficio dei consumi occidentali, la fiumana di migranti alle porte d’Europa). La progenie zombi del Capitale è talmente concentrata sulla propria bulimia consumista da ignorare i meccanismi coercitivi che la alimentano sottotraccia.
6.
Ingo Schulze è fra gli intellettuali che meglio si esprimono sulla contemporaneità. La felicità dei mobilifici(Marietti, 2021) enuclea lucidamente teoria e prassi delle mistificazioni del capitalismo globale. Cresciuto senza eccessiva fede nell’ex DDR, leggete cosa scrive a pagina 35 del saggio:
Le pratiche di una società che assume come ultima ratio il profitto privato e la sua moltiplicazione continua ed esponenziale non sono forse contrarie al bene comune e alla sopravvivenza del genere umano? È la ricchezza di una minoranza sempre più invisibile – se paragonata alla popolazione terrestre – a guidare le sorti del mondo.
La dittatura incorporea del neocapitalismo comincia in un tempo e in un luogo ben precisi. Comincia a Berlino, nel novembre del 1989 con la cosiddetta caduta del muro: il socialismo reale era tutt’altro che il paradiso in terra, però costituiva un efficace contraltare all’avanzata planetaria del liberalismo osceno che oggi detta le regole su scala mondiale del vivere-per-consumare. Ancora Shulze:
I rapporti di forza nel mondo sono mutati dal 1989-90. Le “normalità” di allora […] si sono globalizzate e in tal modo consolidate. Esse condizionano e cambiano il mondo ininterrottamente, sono più efficaci della fine del conflitto fra i due blocchi. Una di queste “normalità” è un economicismo onnipervasivo, il cui mezzo e il cui fine possono essere individuati nella privatizzazione e nel profitto privato. Da ciò dipende tutto il resto, che ne è guidato e subordinato. Pensare qualcosa che non “renda”, che non serva alla crescita, che si sottragga al principio di McKinsey e alle quote, è un’opzione risicata e marginale. E tutto ciò viene interpretato come fine delle ideologie, come avvento di una politica conforme al mercato e orientata ai vincoli esistenti.
Se è vero che l’ostalgia non rientra nei piani di IngoSchulze, è vero anche che il rimedio allo statalismo coatto dei Paesi dell’Est è stato egualmente deleterio. Sotto questo aspetto Schulze non fa sconti, stigmatizzando le perversioni di un sistema che ha come peccato principale quello della reificazione massiva: avere ridotto milioni di cittadini-zombi a un grado altissimo di non-consapevolezza. Milioni e milioni di individui uniformati nell’ignavia politica, distratti dalla miseria o dall’iper-consumo, incapaci di rendersi conto che le consuetudini di vita attraverso le quali si estrinseca lo stato delle cose in Occidente, sono di fatto espressione di un ingranaggio antidemocratico spersonalizzante.
Dall’estratto di un dialogo pubblico fra lo scrittore e Stefano Zangrando mi annoto i periodi che seguono: l’entusiasmo con il quale il mondo ha accondisceso in massa agli oppiacei richiami del neoliberismo, si rivela piuttosto il segno di un abbaglio, di un approdo collettivo all’afasia.
C’era bisogno – io almeno ho avuto bisogno – di fare un po’ di esperienza dell’Ovest per poter vedere esattamente che cosa c’era stato nella Ddr. E, naturalmente, bisogna dire che sotto l’aspetto politico e ideologico non c’era davvero libertà […] Ma è naturalmente interessante capire quali altre libertà vi fossero invece nell’Est, delle quali oggi non si parla ormai quasi più. Io, per esempio, solo nella primavera del 1990 ho riflettuto per la prima volta sul denaro. Non che nella Ddr uno non avrebbe gradito guadagnare più soldi, ma il denaro non rivestiva alcun ruolo, ad esempio nella scelta della professione. Io ho studiato lingue antiche, latino e greco, e mio padre, che era nell’Ovest, mi disse sprezzante che la mia era […] un’attività che non dà da vivere. Non compresi affatto cosa intendesse, o perché non avrebbe dovuto darmi da vivere: l’università era obbligata a procurare un lavoro ai suoi laureati. A prescindere da cosa avrei ricevuto, dunque, sapevo che non avrei guadagnato meno di altri. E anche il fatto di avere una bella abitazione non dipendeva dal denaro. Non voglio idealizzare nulla, c’erano semplicemente degli spazi di libertà di cui ci si è resi conto solo nel momento in cui non c’erano più.
Rincara la dose lo scrittore-filosofo Vasile Ernu (Nato in URSS, Hacca Edizioni):
C’è poi un’altra conclusione che oggi disturba e infastidisce in maniera non indifferente: il fatto che, dal mio punto di vista, tra il mondo da cui siamo usciti e quello in cui siamo entrati non vi sia una differenza sostanziale, bensì solo di sfumature, di involucro. Se il mondo (sovietico, n.d.r.) in cui siamo vissuti era centrato sulla repressione politica, quello di oggi si basa sulla repressione economica. Sono due facce della stessa medaglia. Entrambe sono forme di repressione e di controllo. Entrambe ci controllano e ci riducono in sudditanza, cercano di trasformarci in schiavi e macchine che reagiscono a ordini prestabiliti. Entrambe ci lavano il cervello in maniera altrettanto perfida e ci alienano con altrettanta efficacia […] Noi almeno, facevamo propaganda in modo palese, onesto, mentre le tecniche occidentali sono assai più perfide e sofisticate.
A un certo punto del decennio di fango (anni Ottanta), il marxismo venne spacciato come obsoleto, sbarazzarsene sembrava affrancante, cosa buona e giusta in nome del liberalismo che si imponeva come il nuovo spettro in giro per l’Europa. Alle latitudini italiane il Paese dei Balocchi aveva rotto gli argini ed era tracimato dalla favola di Pinocchio alla Milano da bere, specchio edulcorato di una Nazione da bere. Il babau del comunismo bruciava finalmente come il fantoccio di Re Carnevale e del resto anche i muri, le statue e il Moloch dell’Unione Sovietica si apprestavano a cadere. Il capitalismo espanso aveva fatto fuori, uno dopo l’altro, i suoi nemici. Persino gli anni Settanta – così rigorosi, vetusti, intirizziti dal dover essere ideologico (dixit) – sembravano ormai lontani, e dio come ci siamo sentiti sgravati: più liberi, più ottimisti, felici e contenti, forse un tantino più imbecilli però contenti: la progenie zombi del Capitale emetteva i suoi primi, irrilevanti, vagiti. Mezzo secolo dopo la storia rivela di fatto la fine della baldoria, l’avvenuta trasformazione dei creduloni in ciuchi: come al risveglio da un sonno da bella addormentata si scoprono la crisi strutturale dell’economia e l’aumento esponenziale dello sfruttamento dei lavoratori-morti-vivi: non sarà che Marx avesse visto giusto? Se non in merito alla dittatura del proletariato, sul fatto delle cellule afasico-cancerose propagate dal neocapitalismo, mi pare non si sbagliasse.