“Il PCI sta con il padrone/ è questa la vera provocazione/ provocatori sono PCI e sindacato/ che pieni di paura invocano lo Stato/ socialdemocrazia vuol dire repressione/ lotta di classe per la rivoluzione.” Parole d’ordine del corteo autonomo di Milano del 18 marzo 1977 “Nel 1977 la famiglia della sinistra uccise suo padre, il Partito comunista italiano. Un delitto a lungo cercato. Il parricidio venne consumato quasi fisicamente nell’espulsione dall’Università di Roma occupata di una delle figure più potenti del movimento operaio, il capo della Cgil Luciano Lama. Una lunga fase finisce, l’onda lunga del ‘68 studentesco e del ‘69 operaio. Si interrompe – per via di implosione – la rincorsa al governo del Pci.” Lucia Annunziata, 1977. L’ultima foto di famiglia (Einaudi 2007) “Alba meccanica è la premonizione dello scenario distruttivo e autodistruttivo. È un cielo cupo, chiuso, senza un raggio di luce, quello di Bologna, un cielo che non si apre. Assomiglia al cielo di certe mattine invernali, coperte, buie al punto che quasi non te lo aspetti. Mattine in cui ti sorprendi a scoprire che il sole non verrà. Ma ‘alba meccanica’ è anche un concetto metaforico che non riguarda solo l’alba di Bologna. Riguarda l’alba di un intero periodo storico. Se ho portato sfiga mi dispiace, però un pochino mi sa che ci ho preso.” Claudio Lolli, intervista all’autore “Il giorno di solito comincia sporco come l’inchiostro del nostro giornale scritto sui bianchi muri delle prigioni della repubblica federale. Che giorno per giorno avanzando tranquille son quasi davanti alla tua finestra con un corteo di stelle e scintille e i tamburini la banda l’orchestra. Spegnete la luce pensava Ulrike che la foresta più nera è vicina, ma oggi la luna ha una faccia da strega e il sole ha lasciato i suoi raggi in cantina. Spegnete la luce pensava Ulrike che la foresta più nera è vicina, ma un jumbo jet scrive ‘viva il lavoro’ col sangue, nel cielo di questa mattina.” Claudio Lolli, Incubo Numero zero
L’anno televisivo del Settantasette si apre con la morte annunciata di Carosello. È un accadimento simbolico. Un presagio di fine innocenza. Fuori dal piccolo schermo dilaga la battaglia sui consumi. A cavalcare l’onda della lotta agli sprechi Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano, il primo dei partiti all’opposizione. Provata dagli scandali che la squassano dall’interno, la Democrazia Cristiana – come dire? – tace e ringrazia. Il ‘compromesso storico’ sembra a un passo, al punto che dall’America ammoniscono: resistere alle tentazioni. Secondo i conservatori sarebbero in gioco non soltanto il futuro DC ma anche quello della Chiesa. “I fedeli che pensano di essere con lui (col PCI, n.d.r.) sulla rotta di Cristo, poi di fatto si trovano sulla rotta di Marx” tuona dal suo scranno il cardinale Siri.
Tra i cittadini comuni c’è chi spera e c’è chi spara. Il 1977 italiano è un’autentica sinfonia di piombo: il fuoco dell’eversione incendia il Paese: duemilacentoventotto attentati, trentadue persone gambizzate, undici assassinate.
Il 4 maggio a Torino dovrebbe aprirsi il processo ai brigatisti dietro le sbarre. Qualche giorno prima – il 28 aprile – Fulvio Croce, Presidente dell’ordine degli avvocati, viene ucciso in un agguato. Il gruppo di fuoco responsabile dell’omicidio è formato da due uomini e una donna. L’Italia trema, la carica di giudice popolare resta vacante: ci si defila ricorrendo a pretesti e certificati medici. Anche i giornalisti sono sotto tiro, i killer adesso mirano alla testa, come nel caso del vicedirettore della Stampa, Carlo Casalegno. Lo uccidono quattro Br della colonna torinese mentre rientra a casa per il pranzo. Qualche mese prima sono stati gambizzati Indro Montanelli e Vittorio Bruno, vicedirettore del Secolo XIX.
Il 17 febbraio 1977 un altro evento-simbolo racconta, stavolta l’escalation movimentista. Il segretario della Cgil Luciano Lama è contestato dagli studenti durante un comizio all’Università di Roma. È il debutto clamoroso degli Indiani metropolitani, l’ala creativa del Movimento (“scemooo-scemooo” diventa presto un must assembleare), ma allo strappo a sinistra concorrono anche i duri e puri di Autonomia Operaia. Si tratta di un anticipo dei fatti di marzo: a seguito dei tafferugli scoppiati alla Facoltà di Anatomia tra attivisti del Movimento Studentesco e di Comunione e Liberazione, l’11 a Bologna, muore ammazzato lo studente di medicina Francesco Lorusso. L’arrivo delle forze dell’ordine provoca il degenerare degli scontri: un carabiniere replica al lancio di una molotov facendo fuoco ad altezza d’uomo. Lorusso, militante di LC, è raggiunto da un proiettile al torace. La base movimentista non ci sta e si organizza reagendo a sua volta con violenza.
Roma, Piazza della Repubblica, il giorno dopo. Una manifestazione indetta dagli studenti medi è affollata da oltre cinquantamila persone: la mobilitazione di massa è il prologo di un altro pomeriggio di guerriglia urbana. Gli scontri tra forze dell’ordine e giovani del Movimento iniziano a Piazza Venezia e proseguono in Piazza Argentina. Gli attacchi ripetuti frantumano il corteo in diversi tronconi. Si attaccano sedi politiche, commissariati, negozi di armi. Vengono colpiti anche il Tribunale militare, l’ambasciata diplomatica del Cile fresco golpista. Danneggiate alcune macchine della televisione e la sede de Il Popolo, giornale della DC. La Capitale trattiene il fiato, si va avanti in questo modo in diverse zone della città, fino a sera tardi.
Nemmeno a Bologna studenti e polizia stanno a guardare. Sono da poco passate le ventitré del 12 marzo quando le forze dell’ordine fanno irruzione negli studi di Radio Alice, accusata di aver coordinato via etere gli scontri seguiti all’omicidio di Lorusso. Sotto la sigla programmatica Humpty Dumpty (il grosso uovo antropomorfizzato seduto sulla cima di un muretto, nel romanzo di Lewis Carroll), l’emittente aveva distribuito nel circuito delle radio libere un corposo catalogo di eventi, concerti, open radiofoniche, contributi sonori, che incarnano alla lettera la cifra multiforme del ‘77. Le trasmissioni di Radio Alice vengono interrotte per mano militare. Alcuni redattori sono arrestati. Altri si danno alla macchia fuggendo dai tetti. La cronaca concitata dell’irruzione poliziesca si trova su internet, all’indirizzo www. radioalice.org:
arriva la polizia e allora? – lascia acceso su al massimo al massimo al massimo – se c’è un avvocato, se c’è un avvocato del collettivo di difesa per favore venga qui immediatamente – per favore immediatamente – c’è la polizia qui, in questo momento – le pistole e i mitra puntati – c’è la polizia con i giubbotti antiproiettile – calma ragazzi calma qui stanno per entrare – portate via questo – avete il mandato? – mi fa vedere? – non aprite non aprite fino a quando arriva qualcuno […] Dunque la polizia ha ricominciato a battere sulla porta – continua a urlare di aprire – stai attento, stai giù – stanno arrivando gli avvocati – aspettate cinque minuti […] – senti c’è la polizia alla porta – sono entrati – sono qui – sono entrati sono entrati – siamo con le mani alzate – sono entrati, siamo con le mani alzate – ecco stanno strappando il microfono – mi stanno strappando il microfono – ci abbiamo le mani in alto dicono che questo è un posto di merda…
A Bologna è questo il clima. Guerresco. Simil-cileno. Repressivo. L’odore dei lacrimogeni opprime la città. Va avanti così fino al 14 marzo, quando i blindati inviati dal ministro degli Interni Francesco Cossiga sgombrano a forza gli studenti dell’università occupata.
La vita della Nazione continua senza sostanziali variazioni sul tema: il 5 luglio il quotidiano Lotta Continua pubblica un appello “Contro la repressione del compromesso storico” cui aderiscono diversi intellettuali dell’epoca (Jean-Paul Sartre, Michel Foucault, Gilles Deleuze, Felix Guattari, Roland Barthes, fra gli altri), e a fine estate la popolazione giovane più impegnata del Paese estende il concetto al Convegno nazionale organizzato dal Movimento a Bologna (23, 24 e 25 settembre). Tra feste improvvisate, rappresentazioni teatrali, eventi musicali, in centomila trasformano la città in un happening senza quartiere. All’interno del Palazzo dello sport il leitmotiv del futuro prossimo movimentista è però affrontato spesso fuori dai denti; di lì alla rissa fratricida il passo è breve. Attori principali autonomi e aderenti a Lotta continua, apostrofati come “nuova polizia”. Per il Movimento del 77 sta per scriversi una pagina storica: senza un accordo strategico fra le diverse anime, la tre giorni bolognese ne sancisce in pratica la dissoluzione politica. L’accadimento nodale sancisce al contempo una fine e un tetro inizio: la morte in croce dell’ideologia e l’inizio del riflusso.
E nel milieu di quest’anno topico Claudio Lolli. Nel 1977 Claudio Lolli osserva le implosioni movimentiste senza supponenza, piuttosto con l’aria meditativa del compagno che ne ha intuito l’esaurimento propulsivo e che intravede in questo i segni di preoccupanti derive sociali. Disoccupate le strade dai sogni viene pubblicato a settembre da Ultima Spiaggia, l’etichetta indipendente che scommette sull’idea di una produzione discografica slegata dalle consuete logiche commerciali.
Ricorda Lolli: “Alla Emi dopo gli Zingari felici mi avrebbero fatto ponti d’oro. Volevano firmassi con loro un altro contratto, decisamente più consistente. A quel punto io avevo già deciso però di incidere con Ultima Spiaggia e sono andato via, rendendoli – come dire? – molto nervosi. Allora ero giovane e alquanto ideologico. Pensavo che Ultima Spiaggia fosse il posto mio; meno compromesso con le multinazionali americane e stronzate del genere, però è quello che pensavo”.
L’album è precognitivo del presente di allora e di oggi. Una partitura funerea che comincia all’abbrivio degli Zingari felici e sfocia nell’incubo numero zero della repressione. E dunque, per prima cosa, andrebbe sgomberato il campo da un luogo comune: in Disoccupate le strade dai sogni non si officia soltanto l’intirizzirsi dell’orda d’oro movimentista ma anche l’illividirsi del cielo di Bologna (l’alba meccanica di Bologna) a opera dei clown del Nuovo Ordine socialdemocratico. A parte Autobiografia industriale, scivolata fuori da un qualche cassetto aperto sul passato, le canzoni del disco sono tutte ascrivibili al 1977 e ai suoi dintorni; e per ciò cronistiche nel dettagliare lo sbando seguito al pugno forte calato dal Potere sugli Zingari che tentarono l’assalto al cielo. La Socialdemocrazia (il volto tirato a lucido della sinistra istituzionale) sguinzaglia ovunque i suoi pagliacci sinistri, ectoplasmi proto–kinghiani simili a quello dalla ghigna spettrale e la falce in mano, fissato tra i grattacieli di Manhattan sulla copertina del disco.
Alimentato da ridondanze jazz/prog, e da una brama visionaria che si evidenzia soprattutto nella title-track d’apertura e in Incubo numero zero, Disoccupate le strade dai sogni è il più ostico degli album di Lolli. L’album più sperimentale e urticante. Il più politico dei dischi che ha scritto, volutamente disequilibrato, attraversato da rabbia lucida, da lucido smarrimento, da ossimori, da paura. Dalla necessità di denuncia. Un disco-specchio di un Settantasette in cui succedono tante cose e tutte assieme. Disoccupate le strade dai sogni discende evidentemente da quel tempo e da quel luogo. Discende da un brusco risveglio collettivo, dalla violenza di piazza, dal definitivo voltafaccia del Partito Comunista, dai carri armati per le strade della città, dai rantoli del Movimento. Disoccupate le strade dai sogni discende da tutto questo e da lì.
“[…] È stato un orgasmo di libertà” sintetizza Lolli, “in questo orgasmo di libertà, capisci che il tuo lavoro può essere molto diverso, che l’importante non è scrivere cinque strofe in corrispondenza dal punto di vista metrico, ritmico e strutturale, ma può essere molto diverso, molto più libero […] Non riuscivo più a mettere in fila due accordi che avessi già sentito. A volte ho commesso degli errori, naturalmente, dei peccati di intellettualismo, forse perché poi le canzoni devono avere una loro regolarità… Il materiale era un po’ sulla scia degli Zingari felici, la prima facciata è una specie di suite, mi piaceva molto questa idea di andare oltre la forma canzone. La seconda parte, invece, pesca qua e là. Per me il disco è la prima facciata, quelle prime quattro canzoni… non raccontano esattamente quello che succedeva in quel gran casino che era Bologna nel ‘77, però risentono di quell’atmosfera lì. Io l’ho vissuto come l’inizio della regressione, della restaurazione. Detta metaforicamente: i sogni non sono una cosa individuale e allora buttiamoli fuori negli Zingari felici, poi viene qualcuno a dirti no, toglieteli dalle strade e rimetteteli nei cassetti… C’era questa emergenza un po’ tragica nella città. E tutto era così agitato che abbiamo scelto una musica anch’essa agitata, non canonica”.
Come Io se fossi Dio per la discografia gaberiana, Disoccupate le strade dai sogni è il punto di non ritorno dello specifico di Lolli. L’ultimo avamposto conosciuto, l’estremo distaccamento ai margini del suo stesso microcosmo. Un disco spiazzante. Maledetto. Interdetto. Incompreso. Distribuito male, eppure ancora attuale per la capacità che ha di disvelare i meccanismi – occulti e palesi – attraverso cui si perpetua la coazione sociale. Quarantasei minuti di sana inquietudine. Scomodi come scomoda riesce a essere la poesia antagonista, il pensiero divergente restituito alla prassi, al piano crudissimo della realtà. Anche per via di tutto ciò, Disoccupate le strade dai sogni rimane un disco rivoluzionario.
Con un megafono su un autobus rosso/ un cristo uscito dal Circo Togni/ comincia un comizio con queste parole/ Disoccupate le strade, dai sogni/ Disoccupate le strade dai sogni/ Sono ingombranti, inutili, vivi/ I topi e i rifiuti siano tratti in arresto/ Decentreremo il formaggio e gli archivi/ Disoccupate le strade dai sogni/ per contenerli in un modo migliore/ Possiamo fornirvi fotocopie d’assegno/ Un portamonete, un falso diploma, una ventiquattrore/ Disoccupate le strade dai sogni/ ed arruolatevi nella polizia/ Ci sarà bisogno di partecipare, ed è questo il modo/ al nostro progetto di democrazia/ Disoccupate le strade dai sogni/ e continuate a pagare l’affitto/ ed ogni carogna che abbia altri bisogni/ dalla mia immensa bontà sia trafitto
In Incubo numero zero (traccia n. 2 del disco) sono fissate lucidamente le coordinate di una società iper-controllata; persone reificate a ontologie unidimensionali, prevedibili, governabili, dunque padroneggiabili. La società prospettata dal Nuovo Ordine Democratico è una società artificiale, finto-felice, ultra-amministrata. I vetero-valori sono espressi da indici numerici, proiezioni di calcolo, grafici di gradimento, archivi, schedari, assistenza gratuita, pensieri felici, gesti regimentati. Persino “i carabinieri saranno più buoni” e il loro grado di bontà sarà comunque misurabile.
Viene da ripensare all’analisi marcusiana de L’uomo a una dimensione:
Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno di progresso tecnico […] Alla negazione della libertà, e perfino della possibilità della libertà, corrisponde la concessione di libertà atte a rafforzare la repressione. È spaventoso il modo in cui si permette alla popolazione di distruggere la pace ovunque vi sia ancora pace e silenzio, di essere laidi e rendere laide le cose, di lordare l’intimità, di offendere la buona creanza. È spaventoso perché rivela lo sforzo legittimo e persino organizzato di conculcare l’Altro nel suo proprio diritto, di prevenire l’autonomia anche in una piccola, riservata sfera dell’esistenza. Nei paesi supersviluppati, una parte sempre più larga della popolazione diventa un immenso uditorio di prigionieri, catturati non da un regime totalitario ma dalle libertà dei concittadini i cui media di divertimento e di elevazione costringono l’Altro a condividere ciò che essi sentono, vedono e odorano.
Il piano regolatore del benessere socialdemocratico gravita e si delinea in Lolli attorno a orbite omologanti, opposte alle rotte invece ingovernabili del “tutto-subito”, degli slanci, degli “assalti al cielo”. Non a caso i sogni sono esiliati dal nuovo Sistema, ritenuti contingenti, definiti “ingombranti, inutili, vivi”. Ma l’anamnesi del collasso operata da Lolli non si limita alla notifica delle sole libertà eterodirette: in Attenzione, la traccia che chiude, quasi simbolicamente, la facciata A del disco, l’obiettivo del discorso è (re)indirizzato all’interno del corpus movimentista, verso le controindicazioni che il sognare-a-tutti-i-costi, il sognare sterile e fine a se stesso, può comportare. Anche i sogni male orientati, una fantasia disancorata alla prassi, un’utopia priva del suo sostrato ideale, possono degenerare in gabbie dalle quali infine è difficile evadere.
Va anche detto che sebbene le tracce di Disoccupate le strade dai sogni si auto-palesino come politiche, Lolli non cede mai alla tentazione della scrittura-tazebao: il valore aggiunto narrativo di Claudio Lolli è infatti quello di un poeticismo che non invalida la tempra sociale di questo e di altri suoi album. Al di là della connotazione provocatoria, persino Analfabetizzazione (traccia n. 4), si segnala per una struttura capace di para-poesia, al punto da potersi assumere come eco della pratica (della poetica?) destrutturante/desiderante di Radio Alice. L’ennesimo ed estremo tentativo di una rifondazione esistenziale, più ancora che politica. Il recupero di una resistenza ontologica che alle libertà obbligatorie e alla burocratizzazione della felicità obbligatorie, oppone una provocatoria rottura delle convenzioni sovrastrutturali. A cominciare (non a caso) dalla parola, in quanto espressione di socialità, modo di essere-con gli altri.
La mia madre l’ho chiamata “sasso”/ perché fosse duratura sì/ ma non viva/ I miei amici li ho chiamati “piedi”/ perché ero felice solo/ quando si partiva/ Ed il mio mare l’ho chiamato “cielo”/ perché le mie onde arrivavano/ troppo lontano/ Ed il mio cielo l’ho chiamato “cuore”/ perché mi piaceva toccarci dentro il sole/ con la mano/ Non ho mai avuto un alfabeto tranquillo, servile/ Le pagine le giravo sempre con il fuoco/ Nessun maestro è stato mai talmente bravo/ da respirarsi il mio ossigeno ed il mio gioco/ Ed il lavoro l’ho chiamato “piacere”/ perché la semantica o è violenza/ oppure è un’opinione.
Le asperità insite all’assetto musicale dell’album si (im)pongono come una partitura coesa al discorso. La sperimentazione – l’improvvisazione jazz e rock, a un passo dal prog – è l’humus musicale di cui si compone Disoccupate le strade dai sogni. Un coacervo di sax sovrapposti, trombone, flauto, chitarre, basso, piano, synth, organo, batteria. E a conferire contorni grotteschi (spettrali) a La socialdemocrazia c’è anche una marcetta che sembra scritta con in testa, ben chiare, le suggestioni politiche di Kurt Weill. Nel caos afasico seguito ai sogni “suicidati” di Bologna, è questa infatti la colonna sonora della fine del mondo libero-sognante, lo spartito paranoide che commenta l’incedere senza ostacoli della socialdemocrazia.
Ma che nebbia, ma che confusione, che aria di tempesta, la socialdemocrazia è un mostro senza testa. Il nemico, marcia, sempre, alla tua testa. Ma una testa oggi che cos’è? E che cos’è un nemico? E una marcia oggi che cos’è? E che cos’è una guerra? Si marcia già in questa santa pace con la divisa della festa. Senza nemici né scarponi e soprattutto senza testa!