Dopo gli algoritmi, i dati e i server, Google, Meta, Amazon e Microsoft si fanno padroni anche dell’infrastruttura di Internet
Il mondo virtuale viaggia su Internet: miliardi di bit che quotidianamente rimbalzano da un capo all’altro del mondo. In apparenza totalmente immateriale, la trasmissione di questa immensa mole di informazioni è sostenuta da un’infrastruttura estremamente fisica. Il 97% del traffico dati globale – comunicazioni private, contenuti multimediali, transazioni finanziarie, informazioni militari, documenti governativi – percorre i circa 530 cavi in fibra ottica che attraversano gli oceani: la rete tangibile del cloud si estende per oltre 1,3 milioni di chilometri sui fondali marini.
La costruzione e la posa di questi cavi è storicamente appannaggio delle imprese di telecomunicazioni, che cedono i diritti d’uso della capacità di banda larga ai fornitori di contenuti. Ma negli ultimi anni si è verificato un deciso cambio di rotta: Google, Meta, Amazon e Microsoft, i colossi digitali statunitensi, hanno iniziato a investire nella gestione diretta dell’infrastruttura. Non solo loro. Anche la Cina, attraverso imprese a controllo statale, sta aumentando le proprie zone di influenza.
Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale, dell’Internet of Things, dei servizi di cloud computing, oltre alla continua espansione delle piattaforme di streaming e social network, portano a un aumento esponenziale del traffico dati. Il controllo della spina dorsale di Internet diventa una necessità strategica.
Progetto militare, infrastruttura privata
Come ormai tutti sanno, Internet nasce negli Stati Uniti come progetto di ricerca accademica finanziato dalla Advanced Research Projects Agency (ARPA), agenzia militare che nel 1969 dà vita ad ARPANET, un network locale che collega l’Università dello Utah con tre centri di ricerca californiani. Un anno più tardi la rete comincia a espandersi, includendo tra gli altri i centri di ricerca dell’Università di Harvard e del MIT, il Massachusetts Institute of Technology, mentre nel 1973 – per mezzo di un collegamento satellitare – ARPANET acquisisce una dimensione internazionale, aggiungendo le Hawaii, Londra e la Norvegia ai nodi della rete, che nel 1982 arrivano a essere un centinaio.
Inizialmente gestita interamente dall’esercito, tra il 1983 e il 1984 viene trasformata in una ‘rete di reti’, controllate da diverse organizzazioni e interconnesse attraverso l’adozione di standard di comunicazione condivisi, con il passaggio a un network decentralizzato: Internet.
Nel 1986 la National Science Foundation americana crea NSFNET, rete pubblica per le attività di ricerca accademica, che permette la comunicazione ad alta velocità di parti diverse della rete situate a grandi distanze, e che diventa così lo ‘scheletro’ di Internet. Nel 1992 circa 6.000 network – un terzo dei quali al di fuori degli USA – sono connessi a NSFNET. Internet diventa globale.
Questo sviluppo, finanziato dai fondi pubblici statunitensi, va incontro a una profonda trasformazione negli anni ‘90: con l’aumentare delle persone connesse e nel pieno della deregulation neoliberista, il settore privato comincia a vedere un’opportunità di guadagno. Nell’aprile del 1995 il governo Clinton decide così di privatizzarne l’infrastruttura, che viene ceduta alle aziende di telecomunicazioni con il contestuale smantellamento di NSFNET. Da quel momento Internet diventa terreno di conquista commerciale, a partire dalla rete di cablaggio sottomarina che ne garantisce l’esistenza.
Nuovi proprietari
La posa del primo cavo sottomarino utilizzato a fini di telecomunicazione risale al 1850, con il collegamento del telegrafo tra Inghilterra e Francia. Nel 1858 si ha il primo tentativo – durato solo sei mesi – di attraversare l’Atlantico, collegando l’Irlanda e Terranova, impresa riuscita in modo permanente nel 1866. Il primo cavo telefonico transatlantico diviene operativo nel 1956, tra Scozia e Terranova, e resiste fino alla fine degli anni ‘70. I primi cavi in fibra ottica, che oggi costituiscono la base delle comunicazioni via internet, vengono impiegati dalla fine degli anni ‘80: le informazioni viaggiano codificate sotto forma di impulsi di luce in sottilissime fibre di vetro, protette da un’intelaiatura di polietilene e metallo dello spessore di pochi centimetri.
Nell’industria dei cavi sottomarini sviluppatasi in seguito alla privatizzazione si distinguono essenzialmente due tipologie di proprietà: il consorzio, un gruppo di imprese che finanzia congiuntamente costruzione, posa e manutenzione del cavo, per poi suddividersi la capacità disponibile o cederne i diritti d’uso ai propri clienti – per un periodo di 15-25 anni, solitamente coincidente con la durata di vita prevista del cavo – attraverso accordi IRU (Indefeasible Right of use, diritti d’uso irrevocabili); oppure la proprietà singola, con un’unica azienda a farsi carico dei costi di produzione – nell’ordine di centinaia di milioni di dollari – e che poi cede a sua volta la capacità ai fornitori di servizi internet.
Storicamente, le imprese maggiormente coinvolte in questo mercato sono le compagnie di telecomunicazioni, in gran parte private e per più della metà statunitensi, che si servono di aziende specializzate nell’installazione e nel mantenimento dei cavi. Ma gli investimenti nell’ultimo decennio da parte dei colossi del web – content provider come Google, Meta, Amazon e Microsoft – stanno modificando gli equilibri del settore. Big Tech, infatti, non si è limitata a comprare dai fornitori tradizionali il diritto d’uso della capacità dei cavi: ha iniziato a costruirli direttamente, sia in consorzi con altre imprese che in esclusiva. Secondo un report del Submarine Telecoms Forum del 2022 (1), dei 16,7 miliardi di dollari investiti tra 2012 e 2020, il 47% è concentrato nel periodo 2016-2018, in corrispondenza del boom di investimenti dei giganti digitali, che a partire dal 2018 hanno finanziato il 20,4% dei nuovi cavi – il 35% nel solo 2022…
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