Ristrutturazioni aziendali, occupazione e tessuto produttivo: i posti di lavoro persi in Italia e in Europa negli ultimi vent’anni, in quali settori, le norme europee e italiane che lo consentono e la proposta di legge del Collettivo GKN
“Non si tratta di una norma anti-delocalizzazioni, come propagandato dal governo, ma per proceduralizzare le delocalizzazioni.” Il Collettivo di fabbrica GKN è in mobilitazione permanente dal 9 luglio 2021, quando il fondo Melrose – che ha rilevato nel 2018 GKN, la multinazionale britannica leader nel settore automotive – ha deciso di chiudere lo stabilimento di Campi Bisenzio e avviato la procedura di licenziamento collettivo per i 422 lavoratori. Una fabbrica in salute, con macchinari all’avanguardia e in fase di rilancio produttivo, chiusa secondo la logica della ‘ristrutturazione d’impresa’, vale a dire per abbattere i costi e massimizzare i profitti. Logica che dall’arrivo di Melrose ha coinvolto anche le sedi della multinazionale in Inghilterra e Germania, portando ad altri 1.200 licenziamenti, e che – in termini generali – spesso vede la delocalizzazione della produzione all’estero.
La reazione del Collettivo di fabbrica, quel 9 luglio, è immediata. Gli operai occupano la fabbrica, presidiandola giorno e notte, impedendo che venga smantellato lo stabilimento e svuotato dei macchinari. Arrivano perfino a bloccare i licenziamenti collettivi, con una sentenza del Tribunale del Lavoro che rileva la condotta antisindacale dell’impresa e la violazione dell’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori. Ma la loro mobilitazione non si limita alla difesa della fabbrica: nei mesi successivi arriva a coinvolgere tutto il territorio fiorentino fino alla chiamata a “insorgere” del 18 settembre, quando più di 20.000 persone da tutta Italia scendono in piazza a Firenze, e all’ultima manifestazione del 26 marzo.
Non solo. Al presidio permanente davanti ai cancelli della GKN, insieme agli avvocati del Telefono Rosso e al senatore Matteo Mantero di Potere al popolo, lavoratrici e lavoratori scrivono una proposta di legge contro le delocalizzazioni, le chiusure aziendali e lo smantellamento del tessuto produttivo. Una legge – vedremo – che mette al centro la tutela dell’occupazione e la continuità produttiva e che viene presentata alla Camera dei Deputati il 5 ottobre 2021. Il Collettivo di fabbrica si fa classe dirigente, mentre la classe politica italiana dimostra ancora una volta da che parte sta: a dicembre 2021 la Commissione Bilancio del Senato boccia la proposta dei lavoratori GKN e il governo approva un emendamento alla legge di bilancio che si limita a definire la procedura e le modalità a cui un’impresa deve attenersi per poter chiudere un sito produttivo sul territorio italiano, a fronte di sanzioni irrisorie. Una disposizione che non si discosta, negli effetti, dalle precedenti del 2013 e 2018 e che si mantiene nel solco tracciato dalla normativa europea.
Il quadro europeo
All’interno dell’Unione europea il processo delle delocalizzazioni produttive trova il suo fondamento nei Trattati istitutivi. Il Trattato di Roma che nel 1957 ha istituito la Comunità economica europea (Cee) si poneva come obiettivo la creazione di un mercato unico in regime di libera concorrenza, obiettivo poi integrato dall’Atto Unico europeo del 1986 allo scopo di portare a termine entro il 1992 “uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali”. È proprio la libera circolazione dei capitali – riconosciuta come uno dei fondamenti dell’Unione europea con la ratifica del Trattato di Maastricht – ciò che consente alle imprese di decidere liberamente dove impiantare i propri stabilimenti. Libertà tutelata dagli articoli 63-66 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (TFUE) che vieta, salvo deroghe in casi eccezionali, qualsiasi restrizione ai movimenti di capitali e dagli articoli 258-260 che prevedono l’avvio di una procedura d’infrazione nel caso in cui uno Stato membro ponga restrizioni ingiustificate alla circolazione degli stessi. A questo si affianca la libera circolazione delle merci, principio che prevede il divieto di imporre dazi doganali tra i Paesi membri e che quindi favorisce una concorrenza selvaggia tra le imprese europee. In un contesto di questo genere è evidente che le aziende stesse puntino a stabilirsi negli Stati in cui i costi di produzione sono più bassi – principalmente costo del lavoro e imposte sulle imprese –, potendo beneficiare di un mercato unico in cui vendere la propria merce senza alcun ostacolo.
Un secondo processo che si collega alla libera circolazione di capitali è la ristrutturazione aziendale: le imprese, infatti, spesso ricorrono a riorganizzazioni interne, chiusure di stabilimenti o fusioni con altre società (molte volte estere) proprio per poter mantenere la competitività nei confronti di quelle imprese che, delocalizzando, possono andare sul mercato a prezzi inferiori grazie ai minori costi di produzione.
Partendo dal database dell’European Restructuring Monitor (ERM) di Eurofound – l’agenzia dell’Ue “per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro”, si legge sul sito – è possibile fotografare queste tendenze. ERM si basa sul lavoro di un network di corrispondenti dell’agenzia i quali, partendo dalle notizie apparse sulla stampa nazionale nei diversi Stati membri, raccolgono i dati sui casi di ristrutturazione aziendale che abbiano causato la perdita o la creazione di almeno 100 posti di lavoro, o di almeno il 10% della forza lavoro nelle imprese con più di 250 dipendenti: si tratta quindi di una sottostima del fenomeno reale, sia per la soglia necessaria alla registrazione nel database, sia perché la raccolta dati si fonda unicamente sugli annunci avvenuti a mezzo stampa. Ciononostante fornisce un quadro indicativo sulle delocalizzazioni e ristrutturazioni d’impresa e sulla perdita o creazione di posti di lavoro che ne derivano, sia a livello europeo che di ogni singolo Stato membro.Il database è suddiviso in otto categorie, in base al tipo di ristrutturazione: 1. rilocalizzazione dell’attività in un’altra sede della stessa impresa all’interno dello stesso Paese; 2. outsourcing verso un’impresa diversa all’interno dello stesso Paese; 3. delocalizzazione all’estero; 4. chiusura dello stabilimento per ragioni economiche; 5. bancarotta; 6. fusione aziendale; 7. espansione aziendale; 8. ristrutturazione interna – categoria quest’ultima che comprende circa il 70% del totale dei casi riportati…
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