La teoria della ‘città competitiva’ e della ‘classe creativa’, la rigenerazione urbana, i bandi socio-culturali e gli abitanti short-term, la rendita immobiliare e i grandi attrattori, la cessione del pubblico al privato: le interazioni circolari che favoriscono la gentrificazione e depotenziano le forze sociali un tempo critiche. Con uno sguardo a Milano
“La Bloomberg Way è un concetto di governance in cui la città è gestita come un’azienda: il sindaco è l’amministratore delegato, le imprese sono clienti, i cittadini sono consumatori e la città stessa è un prodotto brandizzato e commercializzato.” (1) Jeremiah Moss, autore di Vanishing New York: How a Great City Lost Its Soul “[…] L’urbanismo è la presa di possesso dell’ambiente naturale e umano da parte del capitalismo che, sviluppandosi conseguentemente in dominio assoluto, può e deve ora rifare la totalità dello spazio come suo proprio scenario.” Guy Debord, La società dello spettacolo
Città. La sociologia urbana non ne dà una definizione univoca, trattandosi di una realtà molteplice e in continuo mutamento e dunque non cristallizzabile in un concetto astorico. Tuttavia una base da cui partire si può trovare nella formula di Max Weber del 1921, che la identifica come un insediamento circoscritto in cui sono localizzati edifici e abitanti. A questo ritratto puramente geografico, nel corso del Novecento differenti studi e teorie si sono concentrati sulle caratteristiche e le dinamiche sociali, economiche, politiche e culturali, individuando la città come una forma specifica di organizzazione socio-spaziale: un insieme di edifici e strade e un insieme di relazioni fra esseri umani, un luogo fisico ma soprattutto un luogo sociale; un’organizzazione materiale all’interno della quale si dispiegano le relazioni sociali, favorendo o frustrando la loro ricchezza e la loro significatività collettiva, secondo il noto urbanista Lewis Mumford.
Nel 1999 la rivista internazionale Urban Studies segna una cesura: dedica un numero monografico a quelle che definisce le “città competitive”, dando risalto alla lettura puramente economicistica della sociologia urbana e ufficializzando l’entrata del pensiero neoliberista nelle politiche cittadine. Il pubblico – il welfare delle case popolari e dell’assistenza ai cittadini più poveri così come la gestione del patrimonio culturale e architettonico – cede il passo alla privatizzazione e alle partnership pubblico/ privato, e la città diviene un “moltiplicatore della crescita economica” e un “centro di innovazione” che deve competere sul mercato delle città globali per attirare capitali e investimenti.
Appena tre anni dopo, nel 2002, lo studioso di sviluppo economico e urbano Richard Florida pubblica The Rise of the Creative Class: il libro è immediatamente acclamato e per qualche anno il suo autore si ritrova impegnato in un giro di conferenze da tutto esaurito, chiamato da amministrazioni locali, istituzioni varie e fondazioni, a portare la teoria delle “tre T”: Tecnologia, Talento, Tolleranza. Florida afferma che la crescita delle città – le città competitive, ovviamente – dipende dalla loro capacità di attrarre la “classe creativa”, che individua, a grandi linee – e senza fare distinzione tra precari e professionisti ben pagati – nei lavoratori digitali come nei designer, negli architetti, ingegneri, artisti, editori, docenti universitari… in tutti i “creativi di professione” insomma, nei più diversi ambiti: sono loro i portatori delle tre T – e contemporaneamente le cercano – e la loro presenza in un territorio produce forza attrattiva nei confronti di capitali, aziende innovative, investimenti e, in un benefico circolo vizioso, altre persone creative.
La Tecnologia è fondamentale per lo sviluppo economico del futuro, il Talento è il ‘capitale umano’ dei creativi e la Tolleranza è la loro apertura alla diversity, registrata da Florida attraverso indici che analizzano la popolazione residente in una città, come il Melting Pot Index (percentuale di persone nate all’estero), il Gay Index (percentuale di omosessuali) e il Bohemian Index (percentuale di scrittori, pittori, scultori, attori ecc.). Come attrarre questi re Mida? Florida sostiene che la classe creativa, nella scelta del luogo in cui vivere, non è particolarmente vincolata dal lavoro: è più lo stile di vita anticonformista, multiculturale, dinamico e cosmopolita a pesare sulla decisione; una “Street Level Culture” che può includere una “miscela brulicante di caffè, musicisti da marciapiede e piccole gallerie e bistrot, dove è difficile tracciare il confine tra partecipante e osservatore, o tra creatività e i suoi creatori”.
La ‘città competitiva’ del terziario avanzato trova così i suoi abitanti ideali nella ‘classe creativa’, e si avvia la trasformazione concettuale della città post industriale e post welfare state: da comunità sociale aperta a tutti, essa diviene un’organizzazione da mettere a valore secondo la logica d’impresa, e a tal fine è prettamente rivolta a – e strutturata per – una particolare tipologia di persone. Ma quale valore dà la misura di una città, ed è dunque da incrementare, per attirare gli investitori finanziari internazionali? Quello della rendita immobiliare.
“Quel che ho cercato di fare, e penso di avere fatto, è stato creare valore per gli investitori, ogni singolo giorno di lavoro”, dichiara al termine del suo mandato Michael Bloomberg, sindaco di New York dal 2002 al 2012, come riportato da Jeremiah Moss nel suo libro Vanishing New York: How a Great City Lost Its Soul; Bloomberg ha riorganizzato il 40% della città e demolito quasi 25.000 edifici in un’ottica di ‘riqualificazione’ orientata alla ricchezza (2). E New York, come Londra, Barcellona, Madrid, Parigi, Berlino, San Francisco… sono le città di riferimento – e le concorrenti da battere – per Milano, Torino, Bologna, Firenze, Roma, Napoli…
Gentrificazione e turistificazione sono le ricadute pratiche della teoria della città competitiva, e i processi grazie ai quali cresce la rendita immobiliare. Due dinamiche tutt’altro che lineari. Concentriche, piuttosto, per tutti gli elementi che mettono in campo in una interazione circolare, riuscendo persino a inglobare le stesse forze sociali critiche, che si ritrovano così depotenziate o del tutto annullate.
Ciò che va sottolineato, è che nell’esplosione del caro-affitti – denunciato recentemente anche dagli studenti universitari con le tende piantate davanti agli atenei – non gioca affatto il libero mercato e la semplice logica della domanda e dell’offerta; sono meccanismi che certamente si innescano, ma in seguito a precise scelte operate dalla politica locale.
La rendita immobiliare
Nel 1979 il geografo Neil Smith sviluppa la teoria del divario della rendita immobiliare, analizzando in quattro fasi il ciclo di vita di un edificio residenziale:
- una fase iniziale di costruzione e primo utilizzo, durante la quale un lieve deprezzamento può verificarsi per un normale logoramento da uso quotidiano o un successivo miglioramento delle tecnologie costruttive;
- la seconda fase si avvia quando i proprietari degli alloggi, non intenzionati a investire per contrastare la svalutazione dell’immobile, decidono di vendere o affittare: la mancata manutenzione porta lentamente al degrado dell’edificio, in una logica circolare che da singola diviene di quartiere – poiché la rendita di un immobile è influenzata dalla condizione degli edifici circostanti, che determina i prezzi di mercato dell’intera zona;
- si apre così la terza fase, dove deterioramento e disinvestimenti si accumulano portando alla fuga degli abitanti verso aree migliori, insediamento di una popolazione più povera, nascita di microcriminalità e problematiche sociali, vuoto parziale di alloggi e crollo della rendita immobiliare;
- per giungere alla quarta fase, dove la situazione dell’intero quartiere arriva all’orlo del collasso, fino a produrre l’abbandono degli edifici ed eventuali occupazioni abusive.
La terza e ancor più la quarta fase rappresentano la situazione ottimale per l’avvio della gentrificazione, poiché il divario tra rendita attuale e rendita potenziale è altissimo: acquisto oggi a due soldi, ristrutturo, affitto/vendo domani a prezzi moltiplicati. A patto, tuttavia, che si verifichi una condizione: che il quartiere sia oggetto di ‘rigenerazione’.
La rigenerazione urbana
Il Comune accende i riflettori su un’area degradata e dichiara il progetto di rigenerazione urbana. Iniziano a muoversi i ‘grandi attrattori’ – che vedremo con Milano – e gli speculatori di ogni risma. Dal nulla compaiono frotte di imberbi agenti immobiliari, che iniziano a bussare alle porte degli alloggi a tutte le ore, lasciando biglietti da visita sullo zerbino e nella cassetta della posta, insieme a volantini con “Cerchiamo appartamenti in zona da acquistare” o “Cerchiamo appartamenti in questo stabile da acquistare”. Arrivano in sciame come le locuste e come le locuste, a un certo punto, spariscono: hanno divorato tutto quello che potevano. Hanno acquistato a miseri prezzi di mercato o poco più da proprietari che, vista la situazione dell’edificio e del quartiere, disperavano ormai di riuscire a ‘liberarsi’ di quelle case.
Contemporaneamente alcuni spazi a pianoterra, ex negozi chiusi da tempo o piccoli magazzini vuoti, vengono ristrutturati e iniziano a vedersi cartelli “affittasi”. Non passa molto tempo e si trasformano in sedi di attività culturali, librerie con bistrò, studi di artisti, architetti e design, ciclofficine, spazi per mostre d’arte, laboratori di artigianato falegnameria e riuso… si è messa in moto la macchina dei bandi.
I bandi socio-culturali
In collaborazione con fondi nazionali, regionali, comunali, europei e/o privati – su tutti le fondazioni bancarie: a Milano la Fondazione Cariplo domina la città – vengono rivolti bandi a oggetto culturale e sociale a enti del terzo settore, associazioni e cooperative sociali. Obiettivo dichiarato: “facilitare processi di rigenerazione urbana a base culturale”, promuovere l’inclusività nel quartiere, la partecipazione, l’attivazione dei cittadini, l’aggregazione sociale, la diversity e la mixité, concetto secondo il quale l’introduzione in un’area socialmente disagiata di abitanti di più alto censo e cultura produce un miglioramento nella qualità di vita degli abitanti già presenti (!). Ovviamente si tratta solo di propaganda. L’obiettivo è creare una zona attrattiva per la classe creativa. Ed è ciò che avviene.
I bandi vincolano i progetti alla sostenibilità economica. Una condizione che impone alle associazioni di creare una struttura a ‘spazio ibrido’, ossia un luogo che mescoli funzioni definite ‘socio-culturali’ (3): la libreria con il bar, il laboratorio creativo con il coworking, la ciclofficina con il ristorante… “Quello che doveva essere uno spazio culturale,” afferma a maggio, nel corso di un dibattito pubblico, un responsabile di una realtà che ha visto la luce nell’ambito di un bando promosso dal Comune di Milano e dalla Fondazione Cariplo, “è in questo momento completamente dedicato a trovare i soldi per pagare un affitto, e quindi siamo concentrati sul portare avanti bar e ristorante e non è stato possibile fare alcun tipo di attività”. Un progetto nato dunque, ufficialmente, per gli abitanti del quartiere e sotto le insegne della pratica sociale, diviene uno spazio a misura di creativi. Che oltre al food&drink propone mostre, festival, week e qualsivoglia cosa possa essere contenuta in una sala e definita un ‘evento’: l’affitto degli spazi diviene infatti un’altra tipologia di entrata finanziaria necessaria al pareggio dei conti, promossa dai bandi anche nell’ottica ‘attrattiva’ della turistificazione della città, come vedremo.
Richiamata in zona, la classe creativa comincia a stabilirsi nel quartiere, nelle case via via ristrutturate, pagando affitti che rapidamente si alzano. Quanto il processo abbia nulla a che fare con la propagandata della mixitè è palese a chiunque frequenti appena quei luoghi: se sono strutturati con spazi dove poter restare senza consumare – come panchine – questi si riempiono degli abitanti originari del quartiere – quelli che sarebbero da ‘attivare’ – mentre dal lato opposto hipster, creativi e radical chic entusiasti dell’associazionismo, dell’ibridazione, degli apericena e dei mercatini vintage, si affollano al buffet dell’inaugurazione dell’ultima mostra fotografica. Due mondi che non si incontrano, non dialogano, non interagiscono.
La ‘rigenerazione’ non è un’integrazione ma una occupazione-con-sostituzione del quartiere. Nella città competitiva si insedia così sempre più numerosa la classe creativa, la rendita immobiliare aumenta e i vecchi abitanti a basso reddito vengono spinti ancor più ai margini periferici, o direttamente espulsi. L’associazionismo culturale e sociale finisce dunque per essere – consapevole o meno – il cavallo di Troia della gentrificazione. Non solo. Muta radicalmente la propria visione.
Da un lato, il vincolo della sostenibilità economica introduce la logica imprenditoriale in un ambito prima votato alla cooperazione sociale, e mette le diverse realtà associative in competizione fra loro per la sopravvivenza; dall’altro, ne depotenzia la forza critica. Legato a doppio filo con il Comune, le fondazioni, la finanza a impatto sociale e le politiche urbane, l’universo culturale e sociale si ritrova cooptato all’interno del potere e delle logiche neoliberiste che prima contestava. Nell’illusione di poter fare concretamente qualcosa per fare uscire persone e quartieri dal degrado e dall’abbandono, finisce per farsi complice della loro ulteriore marginalizzazione, trasformandosi nell’avamposto della gentrificazione.
Il welfare
Ovviamente, nella città competitiva anche tutto ciò che è pubblico deve diventare terreno per la rendita del capitale privato. Nell’edilizia la logica è la stessa: lascio degradare le case popolari affermando che l’amministrazione comunale non ha il denaro per provvedere alla loro manutenzione, fino al momento in cui cadono talmente a pezzi che il costo della ristrutturazione diviene particolarmente gravoso. A quel punto affermo che la soluzione è venderne una parte ai privati per poter avere i soldi per sistemare ciò che resta. Ciò che resta puntualmente non viene toccato, e la giostra riparte: vendo una parte ai privati per poter avere i soldi per sistemare… E così man mano la disponibilità delle case popolari diminuisce, di pari passo con la ‘rigenerazione’ dei quartieri. Accanto, dichiaro che la soluzione del problema non si trova più nell’edilizia pubblica ma nell’housing sociale, e apro ai privati un nuovo mercato per la rendita immobiliare.
Sul piano del sostegno alla popolazione, l’approccio di matrice socialdemocratica viene abbandonato con l’accusa di creare assistenzialismo passivo, e sostituito con la visione neo-ordoliberista: il welfare deve stimolare il self-empowerment, l’auto-imprenditorialità, il ‘capitale umano’, la dinamicità. Lo stesso ingannevole concetto della mixitè si inserisce in questa visione, come se l’uscita dalla povertà potesse avvenire per osmosi. La politica locale inizia dunque a spostare denaro dall’assistenza ai bandi socio-culturali, rovesciando sul terzo settore privato l’onere di integrare e ‘attivare’ le persone più povere – cosa che le associazioni non riescono nemmeno a fare, impegnate, come abbiamo visto, nella morsa della sostenibilità economica – e mentre costruiscono una città a misura di classe creativa per attirare investimenti e far esplodere la rendita immobiliare, dichiarano di operare per ridurre la marginalizzazione delle fasce deboli della popolazione.
La turistificazione
Elencare tutti gli ‘eventi’ presenti contemporaneamente in una qualsiasi settimana a Milano, occuperebbe righe e righe; c’è regolarmente una week (Fashion Week, Design Week, Ocean Week…), accanto a festival (Polinesyan & Pacific Festival, Festival della fuga e dei viaggi, Festival della fine e della malinconia, WeWorld Festival, BAM Circus, Skate and Surf Film Festival, Festival del ciclo mestruale…), mostre di ogni genere – dalla Queer Pandemia a Caravaggio –, e dibattiti, convegni, incontri e spettacoli legati al Food&Drink, al Green, a Sport&Benessere, a viaggi, arte, musica, libri, architettura, animali domestici… (4). L’attrattiva ‘culturale’, presente negli spazi ibridi attivati dai bandi comunali così come nei luoghi più tradizionali – aree fieristiche ma anche musei, gallerie, teatri… luoghi dai quali il pubblico si è ritirato a favore della visione neoliberista delle partnership con il privato – e in nome della quale qualunque cosa, anche la più futile, ludica e smodatamente commerciale, è divenuta ‘cultura’, è un aspetto fondamentale per la città competitiva: da un lato collabora con la gentrificazione catturando la classe creativa – che vive di eventi tanto quanto di biologico – dall’altro innesca il processo di turistificazione che richiama gli abitanti short-term. Questi ultimi favoriscono il mercato dell’affitto breve e dell’airbnb, che genera anch’esso un incremento della rendita immobiliare. Perché funzioni l’appeal culturale occorre tuttavia una martellante campagna comunicativa, e a questa ben si prestano quotidiani e riviste varie e, indirettamente, la stessa classe creativa, costantemente collegata ai social e intenta a postare selfie.
Gli abitanti short-term
Turisti, soggiornanti temporanei e studenti fuori sede sono, a grandi linee, gli abitanti short-term di una città, e gli abitanti ambiti dalla città competitiva (5). Vi trascorrono un periodo determinato – da una notte fino a qualche mese o qualche anno – per lavoro, studio, turismo o per scelta, per poi spostarsi altrove. La stessa classe creativa vi rientra, cosmopolita per impostazione, incline a trasferirsi da una città globale a un’altra. Sono i ‘consumatori di città’. Non ne portano memoria né radici, aspetti generalmente associati all’attenzione per il territorio, i suoi cambiamenti, la sua rete sociale e politica. Non abitano la città bensì la usano, disinteressandosi della sua realtà comunitaria. Più che attori sono comparse nel processo di valorizzazione immobiliare, tuttavia fondamentali, e così la città competitiva si struttura sulle loro necessità: diviene una ‘città vetrina’, un “parco giochi di plastilina” (Jeremiah Moss in merito a New York), “il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” per citare Debord, dove lo spettacolo, l’artefatto e il simulacro invadono sempre più ogni spazio. Gli stessi studenti, che poi ne pagano il prezzo, fanno parte del gioco: oltre gli affitti brevi, la loro categoria chiede vita notturna e locali, che aumentano la vivacità attrattiva della città.
“Le città di successo hanno una capacità impressionante di rigenerare continuamente i propri cittadini” scrive Pierfrancesco Maran, Assessore alla Casa e Piano Quartieri di Milano e autore del libro Le città visibili. Dove inizia il cambiamento del Paese; tra il 2008 e il 2018 Milano ha perso 400.000 persone, trasferite altrove (su un totale di 1,3 milioni, quasi il 25%), sottolinea Maran, ma ne ha guadagnate 500.000: un “fermento”, una “non sedentarietà”, un “continuo rimescolamento” che riempono di entusiasmo l’assessore.
Uno sguardo a Milano
I ‘grandi attrattori’
In tutte le città competitive, a un livello superiore di rigenerazione urbana, inaccessibile ai cittadini, opera il capitale dei forti investimenti, quello legato ai grandi progetti e ai grandi eventi – che le città globali si contendono proprio perché attrattori di capitali. Da una parte è la vetrina più luccicante, il lusso esibito orgogliosamente perché emblema di una città desiderabile, l’urbanistica che genera lo skyline del luogo, che si propone attraverso i nomi degli archistar e si rivolge smaccatamente ai ricchi; dall’altra sono i progetti di housing sociale, di edilizia green e di ‘riqualificazione’ sull’onda dei grandi eventi.
13,1 sono i miliardi di investimento attesi a Milano nel segmento immobiliare tra il 2019 e il 2029, un dato che “porta il capoluogo lombardo ai vertici della classifica delle città più attrattive a livello europeo” secondo un elettrizzato Sole 24 ore: “Nella classifica Monaco è seconda (con 10,8 miliardi di investimenti attesi), seguita da Amsterdam (10,2 miliardi), Stoccolma (9,5), Dublino (9,1) e Madrid (8,7). Ma le stime stanno già crescendo visto che il traino delle Olimpiadi porterà ancora più fermento in città” (6). È questa la logica, e a Milano la si può identificare, tra progetti già conclusi, in corso e futuri, con CityLife, Garibaldi-Porta Nuova (il complesso iper pubblicizzato di piazza Gae Aulenti e l’aggregato di torri tra cui Bosco Verticale), Mind-Milano Innovation District e Cascina Merlata (sul terreno che ha visto Expo 2015), e poi San Siro e l’ex Scalo ferroviario di Porta Romana – il primo di sette scali che saranno ‘riqualificati’ – destinatario del futuro Villaggio Olimpico per i Giochi Invernali di Milano-Cortina 2026, progetto che si trascina dietro Rogoredo-Santa Giulia e la ‘rigenerazione’ dell’area ex-Macello (vedi Mappa 1, pag. 9).
Protagonisti indiscussi il fondo statunitense Hines, una delle maggiori società immobiliari mondiali (7), Coima, il fondo immobiliare della famiglia Catella (8), e Redo, gestore di fondi immobiliari di proprietà di Fondazione Cariplo, Cassa Depositi e Prestiti, Intesa Sanpaolo e InvestiRE (9).
Su questo piano, la competizione tra città per conquistare gli investimenti si gioca anche sugli oneri di urbanizzazione, e Milano registra numeri da discount: nell’accordo sugli scali ferroviari, per esempio – più di un milione di mq di aree un tempo pubbliche e ora in vendita a privati, una delle ‘riqualificazioni’ urbane più appetibili per i profitti che genererà – si sono attestati tra il 3 e il 5%, quando a Berlino sono attorno al 30% e in Francia, sui grandi progetti, sono il 15% (10). Una tassazione ridicola che spesso viene anche azzerata ‘a scomputo’: invece di pagare gli oneri, il privato si impegna a realizzare opere di urbanizzazione, come ciclabili, marciapiedi, zone alberate e spesso un parco; in teoria, uno spazio pubblico, in realtà, ciò che diviene un plus che aumenta la rendita immobiliare stessa – come il BAM, il parco inserito tra piazza Gae Aulenti e il Bosco Verticale, a Porta Nuova, dove gli interventi a scomputo continuano (11).
È un approccio a respiro internazionale, che vive anche di progetti come Reinventing Cities, “una competizione globale promossa da C40 […] un network di circa 100 città influenti a livello globale impegnate a combattere il cambiamento climatico […] un programma internazionale [che] vede il coinvolgimento delle città nell’individuare siti di proprietà pubblica abbandonati o sottoutilizzati, pronti per essere valorizzati [ossia venduti, n.d.a.], e di soggetti privati, organizzati in Team multidisciplinari, nel presentare proposte per la riqualificazione dei siti” (12). Un altro modo per implementare il ritiro del pubblico a favore della rendita immobiliare dei privati. Nato nel 2017, negli anni si sono susseguite diverse edizioni, nelle quali Milano ha messo a bando per la vendita 18 siti, vincendo la gara – e dunque avviando i progetti – per 15 siti.
Ma Milano sta liquidando tutto. Il 5 dicembre scorso la Giunta comunale ha deliberato di vendere in blocco le quote residuali di due fondi immobiliari creati nel 2007 e nel 2009: contenevano “140 proprietà, fra aree e fabbricati, […] i beni di maggior pregio sono stati venduti e quelli ancora in portafoglio hanno valore residuale”, afferma l’assessore al Bilancio Emmanuel Conte; ora saranno messi all’asta in un’unica soluzione. Ma nessun timore: “Per gli immobili residenziali non ancora alienati e ancora parzialmente occupati, il bando di vendita delle quote prevede […] la conferma di una clausola di salvaguardia che garantisce la permanenza degli inquilini per almeno due anni a un canone di locazione moderato” (13). Due anni. Gli inquilini possono dormire sonni tranquilli.
I bandi della gentrificazione
A un livello inferiore si muovono i bandi socio-culturali, che abbiamo visto. A Milano nascono nel 2012 con la giunta Pisapia (14) e proseguono con Sala, in stretta collaborazione con la Fondazione Cariplo, la Regione e attori nazionali. Dall’avvio con la messa a disposizione di 1.200 spazi comunali inutilizzati, l’approccio si è allargato, per citarne giusto alcuni, ai progetti Crowdfounding civico (2015) (15), Lacittàintorno (2017) dedicato ai quartieri (16) – perché non esiste più la dicotomia centro/periferia, che evoca disuguaglianza e marginalità, ma la ‘città intorno’ (!) formata dai quartieri – Nuove Luci a San Siro (2019, a cura della Regione Lombardia) (17), il bando Cascine (2021) (18), Culturability (progetto avviato nel 2013 e tuttora attivo, è un esempio di dinamica di rigenerazione urbana a sguardo nazionale) (19). Sono nate realtà piccole e grandi, come Rob de Matt e Mosso – sui relativi siti o pagine Facebook è possibile farsi un’idea di cosa sono e come si muovono.
Una nota si merita anche OrMe-Ortica memoria (20), un’associazione nata nel 2017 e patrocinata dal Comune di Milano, che “promuove la rigenerazione urbana attraverso la realizzazione di attività culturali, artistiche, ricreative e formative”, in particolare la creazione di murales “sui temi della memoria e sulla storia della città di Milano” (21), muovendosi anche nel mondo dei bandi pubblici e privati (22): un progetto che si inscrive sia nella dinamica della gentrificazione che in quella della turistificazione, considerati gli Street Art Tour che sono seguiti. Comitive di turisti a far fotografie.
I numeri della disuguaglianza
A maggio 2023, sull’onda delle prime pagine guadagnate da Milano per il caro-affitti, la Giunta approva il documento Una nuova strategia per la casa (23), stilato dall’assessorato di Maran. Contiene qualche dato interessante.
Al 2020, Milano conta circa 800.000 unità abitative: un po’ meno dell’80% è in mano a persone fisiche, il restante a persone giuridiche: società e fondi immobiliari, assicurazioni, banche ecc.
Ai primi di giugno, 16.444 appartamenti e 3.641 camere sono disponibili su Airbnb: il 47,1% fa capo a una multiproprietà e, tra questi, il 43,4% (4.160 unità) appartiene a una multiproprietà che conta più di 10 alloggi in offerta su Airbnb (24). Stando ai numeri dichiarati dal Comune, 16.444 appartamenti equivalgono a più del doppio degli alloggi di housing sociale previsti a Milano nel prossimo quinquennio.
Qualche dato sui prezzi (vedi Tabella 1, pag. 10): la quotazione media per la vendita è di 5.185 €/mq (25) e il 40% degli acquisti è fatto per investimento. Sul lato degli affitti, a gennaio 2023 si registrano 21,3 €/mq – significa 530 euro per un monolocale di 25 mq, spese condominiali escluse, ma essendo una media il reale prezzo di mercato è ben diverso; per dati più precisi e soprattutto suddivisi per zone è utile il Borsino Immobiliare, che mostra come in aree centrali si possa arrivare fino a 57 €/mq per l’affitto e 16.600 €/mq per la vendita (26).
A fronte di questi numeri, l’assessorato alla Casa di Milano, autore del documento, scrive che “non si tratta, secondo molti studi, di una bolla immobiliare, in quanto effettivamente la città attrae cittadini e investitori in grado di affrontare i nuovi costi. Si tratta quindi di un problema di natura sociale e di equilibrio di una città che, per funzionare, deve avere al suo interno tutte le classi sociali”. Difficile dargli torto, nella politica della città competitiva: classe creativa e capitali accorrono a Milano e i cittadini short-term si ‘rigenerano’. Resta il problema del “funzionamento” (!) della città, basato su lavori a basso reddito (ristorazione, logistica, pulizia…). Ma già l’assessore Maran ha trovato la soluzione: allargare lo sguardo. Ragionare all’interno dei confini comunali è riduttivo, sottolinea, quando davanti a noi si estende l’intera città metropolitana, ossia la provincia, dove potranno essere espulsi – pardon!, andare a vivere – coloro che fanno “funzionare” Milano, working poor e ceto medio in via di pauperizzazione. Un flusso in uscita che non potrà che aumentare, se diamo uno sguardo ai redditi.
“Il 35,5% dei contribuenti milanesi dichiara un reddito annuo inferiore ai 15.000 euro, con una media di 6.897 euro per contribuente”, mentre “oltre il 40% del reddito complessivo è generato da un 8,2% di contribuenti che dichiara oltre 75.000 euro annui”. Al punto che l’Assessorato è costretto ad ammettere che “tra il 2012 e il 2022 cresce il reddito medio su tutto il territorio metropolitano, ma diminuisce il valore complessivo di quello delle fasce più fragili e cresce quello delle fasce più agiate […] la variazione evidenzia sia una progressiva polarizzazione tra ‘ricchi e poveri’ che un assottigliamento della cosiddetta ‘classe media’”. Una dinamica che ha tracciati geografici che seguono la gentrificazione (vedi Mappa 2, pag. 13).
In tutto questo, il welfare?
Nel territorio milanese, il Comune è proprietario di 28.000 unità abitative (solo 22.113 sono assegnate, le restanti sono sfitte e da ristrutturare) e alla Regione fanno capo 34.000 case popolari (vedi Grafico 1, pag. 16): rappresentano il “10% delle unità abitative cittadine”, un dato che si attesta “intorno alla metà della media europea che è pari a circa il 20%” (27).
Per ristrutturare le case degradate, il Comune “dovrebbe stanziare circa 200 milioni [e] nella condizione attuale di bilancio sono stanziamenti infattibili ed è per questo necessario individuare percorsi differenti”. Il pubblico “è un sistema che a oggi non ha prospettive” scrive l’assessore Maran; “alla domanda del perché non si fanno nuove case popolari la risposta è piuttosto semplice: abitate o sfitte sono una perdita economica per chi le gestisce senza alcun supporto da parte dello Stato”. Viene da chiedersi da quando il welfare debba rappresentare un guadagno. La logica imprenditoriale assunta a piedistallo epistemologico ha rimosso i fondamenti del concetto di ‘pubblico’, e anche i numeri dell’edilizia popolare sono lì a mostrarlo: 1.531 nuovi fabbricati costruiti negli ultimi vent’anni, a fronte di 24.000 realizzati tra il 1946 e il 2000 (vedi Tabella 2, pag. 20).
Continua il documento: “Il modello di investimento completamente pubblico non è il più adatto al contesto contemporaneo” – come se il ‘contesto’ fosse un ostile ambiente naturale nel quale ci si trova di colpo catapultati a vivere, e non il risultato delle politiche intraprese da decenni –, “i problemi dei quartieri popolari pubblici sono da una parte certamente infrastrutturali, ma non si limitano a quello. Una strategia possibile è quella di migliorare le condizioni che possano garantire un incremento in termini di servizi, qualità dei luoghi, opportunità sociali, anche attraverso il coinvolgimento di operatori dell’housing sociale e del terzo settore, che consentano una rigenerazione dei quartieri efficace e radicata. Questi quartieri vanno difesi da effetti di gentrificazione legati al libero mercato” – ovviamente! – “ma possono aprirsi a un mix sociale più ampio e diversificato, positivo anche per gli attuali abitanti”. Ed eccoci tornare ai grandi attrattori, ai bandi per il terzo settore, alla rigenerazione e alla mixité, che già conosciamo.
Ricomposizione
“Mi sento alienato nel mio stesso quartiere. È come una confraternita”, dichiara Jeremiah Moss al New Yorker, in merito all’East Village ‘riqualificato’ (28). Poche parole che danno l’idea della realtà sociale prodotta dalla gentrificazione: la percezione dei vecchi abitanti di subire un’invasione a opera di ‘corpi estranei’, e il conseguente disagio verso la trasformazione spettacolare del quartiere; la creazione di un ‘noi’ – gli abitanti storici – e di un ‘loro’ – la classe creativa che si è insediata –; un nuovo gruppo che sta per conto proprio, senza mescolarsi, smontando la narrazione tanto sbandierata dell’integrazione. Sono sensazioni che conosce chiunque abbia avuto a che fare con la gentrificazione del proprio quartiere. Ma è un noi e un loro che va smontato e superato.
La gentrificazione è un processo di classe: produce una trasformazione sociale che trasferisce ricchezza dal basso verso l’alto e dal pubblico verso il privato. Ma è un processo di classe che utilizza la classe creativa in logica interclassista. Molti creativi – la maggior parte dei più giovani – sono infatti precari sottopagati e sfruttati, che inseguono un sogno grazie al welfare famigliare che li aiuta a saldare l’affitto e a vivere nella ‘grande città’; parecchi di loro sono respinti indietro nel giro di poco tempo, espulsi dalla competizione feroce, che ‘rigenera’ continuamente gli stessi creativi da mettere a profitto. È questa logica interclassista che va smontata, in una ricomposizione ‘di classe’. Sono tuttavia gli stessi creativi i primi a doversene rendere conto, a liberare il proprio immaginario colonizzato dalla società dello spettacolo, così come le associazioni che partecipano ai bandi. Perché il conflitto si trasformi in verticale – contro il capitale della rendita immobiliare e la politica che se ne fa complice – devono innanzitutto comprendere di quale processo sono diventati strumento.
1) https://vanishingnewyork.blogspot.com/2008/10/bloomberg-way.html
2) https://www.bloomberg.com/news/articles/2017-08-17/-vanishing-new-york-s-death-bygentrification
3) “Tali esperienze di rigenerazione urbana a base socio-culturale – convenzionalmente definite ‘Spazi Ibridi’ e diffuse anche in molti altri centri urbani in Italia e all’estero – hanno la capacità di combinare imprenditorialità, innovazione, inclusione sociale e radicamento nelle comunità locali, attraverso forme originali di organizzazione, gestione e produzione di prodotti e servizi”, dal sito del Comune di Milano, https://economiaelavoro.comune.milano.it/progetti/rete-spazi-ibridi-della-citta-di-milano
4) Un’idea della quantità di eventi può darla, in qualsiasi momento, il sito https://www.mymi.it/
5) Cfr. B. Brollo,F. Celata, Temporary populations and sociospatial polarisation in the short-term city, Sage Journals, 20 dicembre 2022, https://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177 /00420980221136957
6) https://www.ilsole24ore.com/art/milano-investitori-esteri-puntano-core-sviluppo-ACfKypU
7) Per un’idea dei progetti italiani in cui è implicato vedi https://modulo.net/it/operatori/hines-italy
8) Per un’idea dei progetti in cui è implicato vedi qui https://modulo.net/it/operatori/coima e qui https://www.coimasgr.com/it/portafoglio/?typology=residenziale
9) Per i progetti Redo https://redosgr.it/affordable-housing/, per l’azionariato di REDO qui https://redosgr.it/governance/, per l’azionariato di InvestiRE qui https://www.investiresgr.it/it/azionariato
10) Per dettagli qui http://www.giannibarbacetto.it/2023/03/20/oneri-durbanizzazione-milano-resta-il-paradiso-fiscale-dellimmobiliare/
12) Per dettagli delle varie edizioni cfr. https://www.comune.milano.it/aree-tematiche/rigenerazione-urbana-e-urbanistica/reinventing-cities
14) Cfr. https://economiaelavoro.comune.milano.it/progetti/rete-spazi-ibridi-della-citta-di-milano
15) Cfr. https://economiaelavoro.comune.milano.it/progetti/crowdfunding-civico-2022
16) Cfr. https://www.fondazionecariplo.it/it/progetti/intersettoriali/lacittaintorno.html
19) https://culturability.org/bandi
20) Cfr. https://orticamemoria.com/
22) Cfr. https://segnaliditalia.it/orme/
23) Comune di Milano, Assessorato Casa e Piano Quartieri, Una nuova strategia per la casa, marzo 2023; tutti i dati indicati in questo capitolo, salvo diversamente indicato, sono presi da questo documento
24) Cfr. http://insideairbnb.com/milan/
25) Nel documento del Comune c’è disparità sul dato indicato in tabella – qui riportata a pag. 10 – e quello nel testo; riportiamo il testo, più vicino alla realtà stando al Borsino Immobiliare
27) Il calcolo tuttavia non è chiaro, perché lo stesso documento indica in 800.000 il totale degli alloggi nella città di Milano, come sopra riportato nell’articolo: stando a questi numeri, le case popolari sarebbero circa il 7,6%
28) https://www.newyorker.com/magazine/2017/06/26/an-activist-for-new-yorks-mom-and-pop-shops