“È chiaro che il pensiero dà fastidio/ anche se chi pensa è muto come un pesce/ anzi un pesce/ e come un pesce è difficile da bloccare/ perché lo protegge il mare […] Certo chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche/ il pensiero come l’oceano/ non lo puoi bloccare/ non lo puoi recintare.” Lucio Dalla, Com’è profondo il mare “Certo bisogna farne di strada/ da una ginnastica d’obbedienza/ fino ad un gesto molto più umano/ che ti dia il senso della violenza/ Però bisogna farne altrettanta/ per diventare così coglioni/ da non riuscire più a capire/ che non ci sono poteri buoni.” Fabrizio De Andrè, Nella mia ora di libertà
Nel milieu
Gli anni di piombo sono polvere sotto il tappeto della sedicente democrazia italiana. Il loro senso ultimo è mistificato in quanto elude il presupposto della guerra civile non ortodossa combattuta in Italia tra il sessantanove e l’ottantadue del secolo scorso. Interpretare il fenomeno dell’eversione armata in ottica dietrologica/complottista (chi era il Grande Vecchio che reggeva le fila dei sovversivi?) o – ancor più ridicolmente – psicanalitica (le azioni armate come espressione di personalità disturbate, narcistico-deliranti) significa omettere, se non mentire sapendo di mentire. Significa disconoscere scientemente il movente rivoluzionario della lotta armata, deprivandola della portata intrinseca, sociale e politica. Comodo pensare che la ‘stagione di piombo’ (estremo anelito di ribellismo anticapitalista in anticipo sull’alienazione di massa post-Ottanta) sia riconducibile a nette antinomie Bene/Male. E chi sarebbero (stati) gli agnelli sacrificali? Le vittime incolpevoli del presunto delirio armato? I grigi politicanti corrotti della Nazione di Gladio e dei servizi deviati? I mandanti degli sceriffi dal mitra facile di Cascina Spiotta (Mara Cagol uccisa disarmata) e di via Fracchia, a Genova (quattro brigatisti trucidati nel sonno)? Oppure gli zelanti burocrati della tortura di Stato, grazie alla quale si è smantellata, ipso facto, la ‘rete’ logistica delle Brigate Rosse? Non raccontiamoci frottole, piuttosto riflettiamo sulle parole dell’ex brigatista Barbara Balzerani. Sono riassuntive del quadro sottaciuto dei fatti:
Nell’ossessiva reiterazione di formulette scaccia fantasmi con cui si liquidano le Brigate Rosse staccandole per lesa appartenenza al contesto di scontro sociale in cui sono nate e in cui sono morte, si assiste ad un fenomeno preoccupante di assenza di ogni filo di ragionamento […] L’analisi del fenomeno indugia tra psicanalisi criminale, ricerche dietrologiche, intimismo massmediato, disconnessione delle relazioni di casualità, di tutto un po’, meno che la laicità di una riflessione critica non pregiudiziale. Ma che ci faceva in quell’Italia prospera e operosa, unita all’apogeo del consociativismo a sostegno di una democrazia sempre in pericolo, con il Partito Comunista e il sindacato più forti d’Europa, quella comunista (il riferimento è a se stessa, n.d.r.) che viveva in uno sputo di paese e militava in un’organizzazione di guerriglia come le Brigate Rosse?
Gli antefatti del piano repressivo vigente nell’Italia del ‘lungo Sessantotto’, sono compresi di fatto in due date-simbolo: quella del 1° gennaio 1965 in cui lo Stato Maggiore dell’esercito condivide in una lettera la proposta del Sifar “per l’addestramento di giovani ufficiali alla guerra non ortodossa” (dettando così le premesse per l’istituzione paramilitare di Gladio); e la data del 10 dicembre 1969, in cui il fascista Giovanni Ventura si imbarca all’aeroporto di Venezia per dare l’imprimatur “a qualcosa di grosso” che, secondo una rivelazione del fratello, sarebbe di lì a poco successo “nelle banche”. Siamo all’antivigilia della strage di Piazza Fontana, ed è probabile che Ventura non dicesse per dire…
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