Contestualizzare Giorgio Gaber, tra musica, politica e società
Nell’anno che segue la strage di Piazza Fontana – col consolidarsi delle istanze del cosiddetto “lungo Sessantotto” – la destrutturazione della canzone commerciale avviene anche attraverso la rilettura dei tic classisti dell’italiano-medio. Fuori dai denti e dentro i testi dei proto-cantautori, si revisiona cioè il modello di borghesia piccola piccola: ne Il signor G (Carosello 1970) di Giorgio Gaber l’orchestra conduce come sempre, ma l’attenzione è adesso concentrata sul messaggio. In un attacco da tragicommedia beckettiana ci sono un ricco e un povero (meglio, due bambini: il figlio di un ricco e il figlio di un povero) che conversano (?) fra loro:
Io mi chiamo G No non hai capito sono io che mi chiamo G No sei tu che non hai capito mi chiamo G anch’io Ah. Il mio papà è molto importante Il mio papà no Il mio papà è forte sano e intelligente Il mio papà è debole malaticcio e un po’ scemo La mia mamma è molto bella, assomiglia a Brigitte Bardot La mia mamma è brutta bruttissima, la mia mamma assomiglia… la mia mamma non assomiglia Il mio papà ha tre lauree e parla perfettamente cinque lingue Il mio papà ha fatto la terza elementare e parla in dialetto… ma poco perché tartaglia Io sono figlio unico e vivo in una grande casa con diciotto locali spaziosi Io vivo in una casa piccola, praticamente un locale… però c’ho diciotto fratelli
Siamo all’inizio di un decennio nodale – gli anni definiti dallo stesso Gaber come “affollati” –, e il romanticoide goliarda dei primi giri (45 e 33 giri) e della tv di Stato si politicizza, proponendo una forma di spettacolo rivoluzionaria, cioè senza antesignani né riferimenti coevi, caratterizzata dall’alternarsi di ballate e monologhi in prosa. A partire da Il signor G, con la neo-sodalità di Sandro Luporini per i testi, G. diverrà un compagno di viaggio ideale nell’Italia perenne delle crisi, della contestazione, quindi dello sprofondo interiore. Una sorta di alter-ego gaberiano con cui misurarsi e fare i conti, condividendone di volta in volta slanci e rassegnazioni, inciampi, bilanci, idee. Il signor G è insomma un album prodromo e già intelligente, in decisa contro-tendenza rispetto alla linea melodica edulcorata antecedente, e in parallelo a quella cantautorale ancora in parte presente.
Il tempo di ascrivere Gaber nel novero nascente dei cantautori e già lui bissa con I borghesi (Carosello, 1971), in cui il punto sulla situazione intrapsichica e sociale risulta ulteriormente espanso, e la polemica comincia ad averne per tutti: chiesa (La chiesa si rinnova), convenzioni (I borghesi), individuo (L’amico), coppia (Ora che non sono più innamorato). In un affresco disincantato di para-società che sogna la rivoluzione ma tende al reazionario. E se nella title-track, dietro il paravento della filastrocca finto-sciocchina, l’associazione borghesi-porci fa leccare barba e baffi ai contestatori in erba (“i borghesi son tutti dei porci/ più sono grassi più sono lerci”), il valzerino melodrammatico de L’amico accontenta chi è in cerca di maggiore introspezione. Surreale la trovata-pretesto de L’uomo sfera, che girovaga (rotola?) per le strade italiane-tipo, e ciò che vi rintraccia è tutt’altro che allegro…
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