Ben altro che pace e lavoro ci hanno portato/ Davanti alle fabbriche schierano il carro armato/ E radono al suolo le case e i forni del pane/ perché tutto un popolo in lotta patisca la fame/ È guerra tra il cane che sfrutta e l’uomo sfruttato/ È guerra tra il porco che inganna e l’uomo ingannato/ È guerra tra il popolo schiavo che soffre e patisce/ E il cane che affama e opprime e il dolore sancisce/ Eppure qualcuno ha creduto alla pace coi lupi/ E adesso ci stanno opprimendo/ e rendono i tempi più neri e più cupi/ Se oggi nessuno ha timbrato è perché non serviva/ E nelle galere han portato chiunque reagiva/ Peccato che il tempo sia stato fissato da loro/ Invece che nascere prima dal nostro lavoro/ Nei campi nessuno ha guardato se il tempo è cattivo/ Nei prossimi giorni il sereno non porterà cibo/ Ma stacca dal chiodo il tuo pezzo di sano potere/ Se il tempo è fissato da loro non stare a sedere/ Non vincono, non vinceranno, non hanno domani/ La forza è nel puntello impugnato da oneste fortissime mani/ Il prossimo fuoco sarà ravvivato da noi/ Nel posto, nel tempo e nel modo fissato da noi/ Nessuno potrà soffocarlo, diventerà immenso/ Mi sembra già di vederlo se solo ci penso/ Non vincono, non vinceranno, non hanno domani/ La forza è nel puntello impugnato da oneste fortissime mani. Pierangelo Bertoli, Non vincono
“[…] Ci si sottomette alla produzione in tempo di pace dei mezzi di distruzione, al perfezionamento dello spreco, a essere educati per una difesa che deforma i difensori e ciò che essi difendono. Se si tenta di porre in relazione le cause del pericolo con il modo in cui la società è organizzata e organizza i suoi membri, ci troviamo immediatamente dinanzi al fatto che la società industriale avanzata diventa più ricca, più grande e migliore a mano a mano che perpetua il pericolo. La struttura della difesa rende la vita più facile a un numero crescente di persone ed estende il dominio dell’uomo sulla natura; in queste circostanze, i nostri mezzi di comunicazione di massa trovano poche difficoltà nel vendere interessi particolari come fossero quelli di tutti gli uomini ragionevoli. I bisogni politici della società diventano bisogni e aspirazioni individuali, la loro soddisfazione favorisce lo sviluppo degli affari e del bene comune, e ambedue appaiono come la personificazione stessa della ragione. E tuttavia questa società è, nell’insieme, irrazionale. La sua produttività tende a distruggere il libero sviluppo di facoltà e bisogni umani, la sua pace è mantenuta da una costante minaccia di guerra, la sua crescita si fonda sulla repressione delle possibilità più vere per rendere pacifica la lotta per l’esistenza – individuale, nazionale e internazionale. Questa repressione, così differente da quella che caratterizzava gli stadi precedenti, meno sviluppati, della nostra società, opera oggi non da una posizione di immaturità naturale e tecnica ma piuttosto da una posizione di forza. Le capacità (intellettuali e materiali) della società contemporanea sono smisuratamente più grandi di quanto siano mai state, e ciò significa che la portata del dominio della società sull’individuo è smisuratamente più grande di quanto sia mai stata. La nostra società si distingue in quanto sa domare le forze sociali centrifughe a mezzo della Tecnologia piuttosto che a mezzo del Terrore, sulla duplice base di una efficienza schiacciante e di un più elevato livello di vita.”
Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione
Anno di merda il 1983. Un anno-simbolo dello spirito imbecille dei tempi. Un anno prodromo dell’incipiente evo craxiano. Quando Pierangelo Bertoli partecipa al faccia-a-faccia tv con Enzo Biagi – il programma è Film Story, qui un estratto https://www.youtube. com/watch?v=mIGUdQiznG0 – nel Belpaese (ex) non tira affatto una bella aria. Solo che in pochi se ne accorgono, distratti come sono dal contare i fagioli di Pronto Raffaella, rincitrullirsi con il barzellettume decerebrato di Drive in, rimettersi a lucido e giocare a fare i broker. E a piede libero c’è anche quel nulla canoro di Toto Cutugno, con il coraggio di sbrodolarsi in luoghi comuni sull’italiano vero con “l’autoradio nella mano destra e un canarino sopra la finestra” (elementi basici dello stare al mondo da minus habens). Una specie di inno nazionale di riserva. Perché dunque cominciare da qui? Perché non dai furiosi – e gloriosi – anni Settanta della Repubblica che meglio interpretano l’humus guerreggiante di Pierangelo Bertoli? Perché a cavalcare la scia di chitarre & militanza politica quando la moda è moda sono buoni tutti. Difficile è farlo quando gli ideali si ammosciano, le piazze si svuotano, o peggio si riempiono di scimuniti in Timberland e Moncler. Quando invece che di zingari felici, per radio è un insistito strombazzare di bollicine e duranduran e vamos a la playa. E le casalinghe italiane, piuttosto che per l’intellettuale organico sbavano per padre Ralph di Uccelli di rovo. Si chiama riflusso, signore e signori. Il pensiero come vuoto a perdere. E Bertoli – di contro – lo si ritrova com’è sempre stato: in una delle sue rade apparizioni televisive, rispondere pane al pane, sorridere poco, sposare la causa, soprassedere alle domande innocue di Biagi, non battere ciglio sui temi dell’impegno sociale e dell’handicap. Azzarda persino un affondo alla morale cattolica, al pietismo di facciata, lavacoscienze. Quando si dice averci le palle in tv. Di quelle palle che sfidano tempi e mode, mestizie benpensanti, carriera, Stato, Chiesa, tentativi di normalizzazione, e vanno a braccetto con la coerenza. Non è che avessi bisogno dell’intervista di Biagi: nel 1983 sapevo già di che pasta era fatto Pierangelo Bertoli, nel senso che i suoi dischi di fede marxista andavano e riandavano da anni sul piatto del mio giradischi. Ma è a partire dagli anni Ottanta – quando cioè la ritirata dall’impegno inizia a essere collettiva – che ho imparato a comprenderlo davvero. A prestare fede ulteriore nelle sue canzoni. Che sanno cosa dire e sanno come dirlo. Perché nel decennio di plastica in cui la valletta diventa proto-velina, e si comincia a (s)parlare di yuppie, borsa, cubiste, visagiste, manicure, Antonello Venditti bela già di cuore-amore e con lui una schiera di Bennati e arlecchini rock (all’insegna del pecunia non olet, e nemmeno le idee), in quest’epoca di rompete le righe e disimpegno di massa, Pierangelo Bertoli si trova laddove lo aveva lasciato il tempo della lotta dura e senza paura: sempre al suo posto, a cantare le cose di sempre. Cioè persone, ideali, amori comuni, vita vera. A insistere, in altre parole, sul peso specifico delle canzoni.
Guidavo, ho appreso della morte di Pierangelo Bertoli dall’autoradio. Non può essere, ho pensato. Insieme ad altre cazzate tipo fumava troppo, si stancava troppo. Come se esistessero buone ragioni per morire tanto presto. Era un ottobre tiepido, oltre il cristallo del parabrezza il sole insisteva nel suo andirivieni senza senso tra nuvolette innocue. E adesso sono già vent’anni e qualcosa che Bertoli non c’è più. E dio come passa il tempo. E dio come invecchiamo male, e come mancano le sue strofe, a ricordarcelo a muso duro. Le sue parole necessarie, messe in fila, una dietro l’altra: spigolose, ostinate, sporche, fiere di lotta vera, di vita vera, di amore vero. Lo stato attuale delle cose, la fuga collettiva dall’ideologia, lo svilimento della politica, i diktat sempre più pervasivi di Chiesa e Stato, la sudditanza giornalistica, l’insipienza discografica senza fine, dimostrano come Bertoli avesse ragione. Come i suoi bersagli non fossero infondati. Come ci abbia preso su molte cose, se non su tutto. L’Italia d’oro è diventata di fango. E il rosso colore dell’amore (i pugni chiusi, le bandiere al vento, l’utopia) sbiadito per sempre. L’attualità è afasica, la cifra socio-cognitiva del terzo millennio.
Pierangelo Bertoli ha assistito all’inizio avanzato della fine, ed è uscito di scena come ha vissuto, facendo a meno di inferni e paradisi, frasi fatte, dischi a perdere, patrie guerriere e ulteriori tentazioni conformiste. Coerente. Fino all’ultimo. Così che nessuno, per esempio, ha potuto attribuirgli conversioni in extremis. Tirarlo da qualche parte che non fosse la sua, le latitudini late della libertà:
Amarti come non ho amato mai/ senza possesso, senza gelosie/ senza l’ambiguità dei parolai/ e le culture fatte di bugie/ Per darti finalmente a chi ti chiede/ e respirare la felicità/ senza inchiodarti al sangue di una fede/ amore mai scordato libertà.
Schierato. Persino al Festival del vuoto a perdere di Sanremo. Prima con Disamparados (di cui pochi hanno afferrato il sostrato militante), quindi con Italia d’oro, con quei coretti – e quelle bandierine rosse sventolanti – che hanno popolato gli incubi del nazionalpopolare (e perciò sempreverde centrista) Pippo Baudo. Bertoli ha sempre detto e cantato fuori dai denti, e questa non è affatto apologia: ha professato la lotta invece di sfruttare il facile pietismo. Ha strapazzato le “sacre istituzioni” invece di strizzare l’occhio a chierici e perpetue benpensanti (“poverino, però che bella voce…”). E se e quando ha cantato d’amore, lo ha stretto nella morsa ferro e fuoco di una Varsavia invasa (“Come posso tesoro tenerti sul cuore/ se stanotte a Varsavia si muore). Oppure lo ha raccontato senza fronzoli, l’amore senza sovrastrutture tra donne e uomini comuni (“Perché per dirti cosa sento in fondo al cuore/ non c’è motivo che mi finga un grande attore”).
Pierangelo Bertoli ci ha creduto: è stato comunista, operaista, marxista-leninista, e non ha mai abiurato. Nemmeno quando conveniva farlo, perché la ruota della politica gira (come le ruote della fortuna) e con essa girano le convinzioni di molti, cantautori compresi. Facendo leva su pensiero critico, buone letture e un refolo di coraggio, il punto fermo ideologico bertoliano risulta inconfutabile: le morali sono un’invenzione strumentale degli apparati economici e di potere. Da qui il rifiuto dei dogmi nevrotico-anestetizzanti agevolati dalla Chiesa (Certi momenti, Bianchezza), e dall’ipocrisia borghese (È nato, si dice; Maddalena; Maria Teresa). Finché gli è stato concesso, Bertoli è stato insomma un cantautore schierato, in trincea. E quando non gli è stato più concesso, lo è stato ugualmente. Un cantautore politico, che ha fatto suo lo spirito di Pietrangeli e Della Mea (per dirne due), traghettandolo su lidi musicali più fruibili. Perché Pierangelo Bertoli è stato anche un vero musicista. Amava il blues. Veniva dal blues (Roca blues, 1975). Credeva che il contenuto della canzone d’autore non dovesse passare per forza dagli accordi in minore. Per cui spazio alla bossanova. Alle chitarre elettriche, alla batteria, al rock. Possibile cantare cose serie senza piangersi addosso. Parlare di solidarietà di classe, emigrazione (L’autobus, Rosso colore) e farlo attraverso strofe e inciso che ti restano appiccicati addosso. Trasformare la retorica del corteggiamento in una Caccia alla volpe dal ritornello irresistibile. Dissacrare su bancarotte fraudolente e simili (Nuova emigrazione) facendo il verso alla canzonetta popolare (“Mamma mia dammi cento lire/ che in America voglio andar”). Raccontare il Sud America senza tralasciare niente e nessuno, compresa l’orecchiabilità:
Pablo ascolta chitarra e zanzare/ ha un governo militare/ sostenuto certamente dai fucili dei marines/ […] Con un volto razziale di forma agraria/ e la croce missionaria/ inchiodato alle pareti/ fai figura pure tu.
Può apparire anacronistico ma è un’altra verità: lo specifico di Pierangelo Bertoli va inquadrato dal focus dicotomico di classi sociali in conflitto. Da una parte il Capitale e i suoi emissari (“Che trattano le masse come capre/ dosando e macellando l’eccedenza/ sacrificando al fatto personale/ i figli, padri, madri e la decenza”), dall’altra i “normali”, i figli di cane, quelli che stanno in trincea al posto di “vescovi” e “cardinali”, per tacere di “capi di Stato o generali”. Oppressi e oppressori si contendono privilegi (gli uni) e sopravvivenza (gli altri) sui fronti divaricati del terreno sociale. Un rapporto marxianamente antitetico. Non dialettico, non risanabile; di netta frattura:
Ben altro che pace e lavoro ci hanno portato/ Davanti alle fabbriche schierano il carro armato/ E radono al suolo le case e i forni del pane/ Perché tutto un popolo in lotta patisca la fame/ È guerra tra il cane che sfrutta e l’uomo sfruttato/ è guerra tra il porco che inganna e l’uomo ingannato/ è guerra tra il popolo schiavo che soffre e patisce/ e il cane che affama e opprime e il dolore sancisce. E stiamo sempre a naso all’aria nell’attesa del profeta/ ma non si vede la cometa/ E diamo tutto il nostro affetto per il marchio sul vestito/ e non ci importa se è pulito/ E il potere un po’ alla volta ce la fa/ E ogni giorno sempre più si gonfierà/ Come un maiale, tutto quanto ingoierà/ Di te, di me, di noi, di chi vorrà.
Da Non vincono (1974)fino alla più recente (e quasi misconosciuta) Il potere (1997) gli apparati e gli emissari di governo sono stigmatizzati da Bertoli in quanto espressioni coercitive. Il conflitto di classe attraversa come filo rosso (di nome e di fatto) l’intera produzione bertoliana. Il suo antimilitarismo (“Però si rifiutava di accettare/ che un pezzo della vita dovesse regalarlo/ per divertire qualche generale”), il suo essere contro ogni forma di repressione di Stato (“Arrivati da lontano poliziotti e celerini/ caricarono le donne col bastoni”), il suo essere insofferente nei confronti di un ceto politico impudico e impunito (“Sai la verità? Dietro ai monumenti tutto il marcio puzza già/ se tu ti dici puro noi saremo davanti a un caso di spergiuro”), vanno assunti come affluenti di una coscienza di classe, di un egalitarismo, perseguiti attraverso musica e parole. Insieme al progetto/sogno di un rinnovamento sociale in senso umanista e libertario. Che passa dalla pars destruensdella denuncia dello sfruttamento in tutte le sue forme (quello umano di Non finirà, quello ambientale di Eppure soffia e Cent’anni di meno), a quella construensdi Un tempo d’oro (“Ho visto nei miei sogni un tempo d’oro/ dove la vita si misura col lavoro/ dove pensare è un facile momento/ dove tu vivi libero di fuori e di dentro”). Prima ancora che i ligabuiani Sogni di rock’n’roll, Bertoli ha dunque rivendicato i sogni degli umiliati e offesi. Degli operai. Degli sfruttati. Convinto, per esempio, che la disumanizzazione del lavoro alieni non soltanto dall’arte (ancora Marx) ma anche da ritmi di vita minimamente accettabili. In un contesto asservito alle consorterie di potere come quello della musica italiana, Pierangelo Betroli passava per duro. In realtà era solo sincero. Diretto. Colloquiale. Votato al giusto e al vero come nelle canzoni che cantava. Polemico, semmai. Quando decide di alzare il tiro, licenziando metafore e poesia, andando dritto al bersaglio. Come in Bianchezza, traccia rovente sul fariseismo ecclesiale:
Col tuo passato di inquisizione e il tuo presente da denunciare/ Col tuo futuro di medioevo e i tuoi pensieri nel capitale/ Col tuo sorriso di porcellana e i tuoi ritorni che chiami nuovi/ Le tue indulgenze vendute all’asta e le crociate che non ritrovi/ Tu che sconfiggi spiriti cattivi, che oscuri il sole e i più famosi divi/ I tuoi seguaci devono pregare perché voi siete pochi/ ma nati per pensare/ Pensare a tutto il peso della vita e quando il giorno al farà finita/ Tu siederai nel cielo tra le stelle/ e a chi ha creduto tanto darai le caramelle.
O come in Giulio (Andreotti):
Nutri il parassita che hai dentro con fantasia/ vedi i tuoi nemici morenti come un’arpia/ dici qualche frase insolente senza pietà/ pensi che la gente è ignorante e non capirà.
La lirica vola radente al bersaglio, a ribadire la vocazione al tazebao più che al pamphlet. Alla prosa diretta più che evocativa. Nelle canzoni più accese, Bertoli non lascia intendere. Dice. Chiaro e tondo. Nessun mascheramento. Tira di sciabola, quasi mai di fioretto (“Non credo nelle sacre istituzioni/ di gente che ha il potere e se ne serve”). I suoi j’accusearrivano affilati e puntuali come frecce indiane. Il Bertoli-pensiero lo si scopre e si accoglie per com’è: nudo, immediato. Esposto e incline alla denuncia. Di fatto non c’è questione sociale che Pierangelo Bertoli non abbia esposto, nelle sue canzoni. Il suo pragmatismo lo portava a un’accezione materialista della vita. Le sovrastrutture ideologiche propaggine dei gangli impositivi del Sistema (Stato, Chiesa, Esercito, Polizia). Per tornare agli esempi, la misconosciuta Ballata per l’ultimo nato è emblematica del tracciato alienante della vita: una sorta di traccia gemella a In fila per tre (Edoardo Bennato), un filino più sofferta ma sottotraccia non meno furente:
Poi passano gli anni, finisce alla scuola e cambia per tutti la fola/ […] Impara la storia, il nome dei santi, impara a odiare i briganti/ E quando il nemico verrà alla partita la patria ti chiede la vita/ La patria, la legge, la fede, l’onore è fumo che chiamano amore/ […] Se il vescovo parla in un giorno di festa tu devi chinare la testa/ Per il tuo padrone, per il tuo signore, sei merce di scarso valore/ Sei forza, lavoro, dai piedi alla chioma sei solo una bestia da soma/ Venduta la mente per quattro parole, avuto il tuo posto nel sole/ E quando tu parli non è la ragione/ sei solo un juke-box a gettone/ […] Andrà alla tua scuola, avrà il tuo pensiero, berrà dal tuo stesso vangelo/ e come suo padre farà la trafila, andrà a ingrossare le fila/ Avrà i suoi padroni, avrà i suoi maestri, un mucchio di sogni modesti/ E come suo padre juke-box a gettone starà nel suo bravo cantone.
Nemmeno in questo caso Bertoli gioca a nascondersi: nessuna edulcorazione, nessun volo pindarico. Il linguaggio cantautorale di Pierangelo Bertoli è mutuato dal parlato. Dal linguaggio di ogni giorno. Non ambisce alla poesia (“I poeti son poeti perché scrivono poesie/ fanno a gara nei concorsi dove vincono bugie”). Il suo approccio narrativo rimane colloquiale anche nei casi in cui, smessi i panni di tribuno del popolo, indossa quelli più acquerellati del cantore delle piccole cose, dei sentimenti privati (A Bruna, La nebbia, E tu sei lontana, Ninna nanna ai miei bimbi). Quasi un sotto-filone della produzione bertoliana. Una fase esistenzial-filosofica (a detta dello stesso cantautore) che parte in maniera pregnante dall’album Tra me e me, attraversa Oracoli e Sedia elettrica, contrassegnando molto della sua ultima produzione. Impronta di tracce e dischi forse non memorabili, però immediati, utili a tratteggiare un altro aspetto – intimista e lunare – del cantautore-guerriero (Tu sei lontana, Colgo una stella, Sere, E così nasce una canzone, Acqua limpida, Nuvole, Chissà perché).
Dopo l’articolata (e sotto molti aspetti interlocutoria) parentesi introspettiva, quello della Ricordi (Gli anni miei) e della Crisler (Angoli di vita) sembrerebbe un autore restituito alla voglia e allo slancio dei vecchi tempi. Con ancora il coraggio di tornare alla carica attraverso testi gravidi di volontà di denuncia. Si avverte in Bertoli come la voglia di scrollarsi di dosso la caligine meditativa (mai fino in fondo avvertita come sua), imboccare di nuovo la strada che lo consegna alla storia come cantautore a muso duro per antonomasia: fedele a un’idea di canzone come veicolo di presa di coscienza e di contestazione. Le contraddizioni del nuovo millennio che avanza, si annunciano del resto come foschi peggioramenti del passato. Ecco allora la rinnovata necessità di brani come Bersagli mobili, Ballata del percorso, Navigatori, Passeggeri clandestini, Festa al castello, I lupi, Vagabondi. Riprova che la vena non è estinta. Che Bertoli ha ancora molto da dare e da dire. Pur se alle prese con le miopie, il pressappochismo discografico, cresciuti frattanto in modo esponenziale. Gli anni miei e Angoli di vita sono due buoni dischi distribuiti poco e male. Segno che aria ed epoca sono irrimediabilmente cambiate. In peggio: non lo comprendono. Non lo vogliono. Non lo meritano. E nemmeno l’Italia sempre più in caduta libera, dove si (ri)stampa di tutto meno che i vecchi dischi di Pierangelo Bertoli. Quand’è l’ultima volta che avete ascoltato Nel 2000? Risale al 1984 e all’album Dalla finestra. Nelle sue strofe si delinea – rigo per rigo, parola per parola – la deriva del presente. Con trent’anni di anticipo.
Nel 2000 tante idee saranno diventate una parentesi/ superate dal progresso, annullate dal processo della sintesi/ Nel 2000 cambieremo le cambiali/ che saranno spiritose e digitali/ Il 2000 è il risultato di un innesto combinato già da adesso/ è un curioso esperimento coronato da immancabile successo/ è l’insieme di una scelta postmoderna/ è un filosofo privato dalla lanterna/ Nel 2000 l’osservanza sarà il metro per vedere tutti uguali/ sia davanti alla famiglia che nel cuore delle leggi universali/ Nel 2000 sarai stata inseminata da una roba radio-telecomandata/ Sei miliardi di persone come tante mignottone/ Saran pronte ad accettare ogni ordine speciale/ E saremo più leggeri, liberati dai pensieri/ Incapaci di protesta, senza grilli per la testa/ Non più magri, non più grassi, niente alti, niente bassi/ Tutti seri e impettiti, sei miliardi di partiti/ Luccicanti canne vuote di strumenti senza note/ Sempre intenti a funzionare su uno schema razionale/ Nel 2000 non si troverà opposizione/ Nel 2000 avremo una unica opinione/ Nel 2000 le risate saran solo programmate e generali/ Con il giusto sovrapprezzo passeranno perversioni personali/ Nel 2000 avremo un cambio di cultura/ e una genesi contraria alla natura/ Un computer di quartiere porterà direttamente dentro casa/ sia la spesa giornaliera che i concetti elaborati dalla NASA/ Nel 2000 sarà tutto uniformato, pertinente, freddo, asettico, mondato/ Scaricate le tensioni, abbattute le emozioni, imbottiti di calmanti/ Psicofarmaci ambulanti/ voleremo senza pesi/ verso esotici Paesi/ in un Eden straperfetto finché durerà l’affetto/ Scivolando sul pianeta in un’estasi completa/ chi lontano, chi vicino/ a seconda del quattrino/ Nuova stirpe di gaudenti/ psico-pillol-dipendenti/ si godranno lo splendore/ di una stirpe superiore/ Nel 2000 tu mi parlerai in giapponese/ Nel 2000 non avremo più pretese.