Ben altro che pace e lavoro ci hanno portato/ Davanti alle fabbriche schierano il carro armato/ E radono al suolo le case e i forni del pane/ perché tutto un popolo in lotta patisca la fame/ È guerra tra il cane che sfrutta e l’uomo sfruttato/ È guerra tra il porco che inganna e l’uomo ingannato/ È guerra tra il popolo schiavo che soffre e patisce/ E il cane che affama e opprime e il dolore sancisce/ Eppure qualcuno ha creduto alla pace coi lupi/ E adesso ci stanno opprimendo/ e rendono i tempi più neri e più cupi/ Se oggi nessuno ha timbrato è perché non serviva/ E nelle galere han portato chiunque reagiva/ Peccato che il tempo sia stato fissato da loro/ Invece che nascere prima dal nostro lavoro/ Nei campi nessuno ha guardato se il tempo è cattivo/ Nei prossimi giorni il sereno non porterà cibo/ Ma stacca dal chiodo il tuo pezzo di sano potere/ Se il tempo è fissato da loro non stare a sedere/ Non vincono, non vinceranno, non hanno domani/ La forza è nel puntello impugnato da oneste fortissime mani/ Il prossimo fuoco sarà ravvivato da noi/ Nel posto, nel tempo e nel modo fissato da noi/ Nessuno potrà soffocarlo, diventerà immenso/ Mi sembra già di vederlo se solo ci penso/ Non vincono, non vinceranno, non hanno domani/ La forza è nel puntello impugnato da oneste fortissime mani. Pierangelo Bertoli, Non vincono
Anno di merda il 1983. Un anno-simbolo dello spirito imbecille dei tempi. Un anno prodromo dell’incipiente evo craxiano. Quando Pierangelo Bertoli partecipa al faccia-a-faccia tv con Enzo Biagi – il programma è Film Story, qui un estratto https://www.youtube. com/watch?v=mIGUdQiznG0 – nel Belpaese (ex) non tira affatto una bella aria. Solo che in pochi se ne accorgono, distratti come sono dal contare i fagioli di Pronto Raffaella, rincitrullirsi con il barzellettume decerebrato di Drive in, rimettersi a lucido e giocare a fare i broker. E a piede libero c’è anche quel nulla canoro di Toto Cutugno, con il coraggio di sbrodolarsi in luoghi comuni sull’italiano vero con “l’autoradio nella mano destra e un canarino sopra la finestra” (elementi basici dello stare al mondo da minus habens). Una specie di inno nazionale di riserva. Perché dunque cominciare da qui? Perché non dai furiosi – e gloriosi – anni Settanta della Repubblica che meglio interpretano l’humus guerreggiante di Pierangelo Bertoli? Perché a cavalcare la scia di chitarre & militanza politica quando la moda è moda sono buoni tutti. Difficile è farlo quando gli ideali si ammosciano, le piazze si svuotano, o peggio si riempiono di scimuniti in Timberland e Moncler. Quando invece che di zingari felici, per radio è un insistito strombazzare di bollicine e duranduran e vamos a la playa. E le casalinghe italiane, piuttosto che per l’intellettuale organico sbavano per padre Ralph di Uccelli di rovo. Si chiama riflusso, signore e signori. Il pensiero come vuoto a perdere. E Bertoli – di contro – lo si ritrova com’è sempre stato: in una delle sue rade apparizioni televisive, rispondere pane al pane, sorridere poco, sposare la causa, soprassedere alle domande innocue di Biagi, non battere ciglio sui temi dell’impegno sociale e dell’handicap. Azzarda persino un affondo alla morale cattolica, al pietismo di facciata, lavacoscienze. Quando si dice averci le palle in tv. Di quelle palle che sfidano tempi e mode, mestizie benpensanti, carriera, Stato, Chiesa, tentativi di normalizzazione, e vanno a braccetto con la coerenza. Non è che avessi bisogno dell’intervista di Biagi: nel 1983 sapevo già di che pasta era fatto Pierangelo Bertoli, nel senso che i suoi dischi di fede marxista andavano e riandavano da anni sul piatto del mio giradischi. Ma è a partire dagli anni Ottanta – quando cioè la ritirata dall’impegno inizia a essere collettiva – che ho imparato a comprenderlo davvero. A prestare fede ulteriore nelle sue canzoni. Che sanno cosa dire e sanno come dirlo. Perché nel decennio di plastica in cui la valletta diventa proto-velina, e si comincia a (s)parlare di yuppie, borsa, cubiste, visagiste, manicure, Antonello Venditti bela già di cuore-amore e con lui una schiera di Bennati e arlecchini rock (all’insegna del pecunia non olet, e nemmeno le idee), in quest’epoca di rompete le righe e disimpegno di massa, Pierangelo Bertoli si trova laddove lo aveva lasciato il tempo della lotta dura e senza paura: sempre al suo posto, a cantare le cose di sempre. Cioè persone, ideali, amori comuni, vita vera. A insistere, in altre parole, sul peso specifico delle canzoni…
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