Catfight di Onur Tukel e l’insensato circolo della violenza
Se, come sostiene il personaggio di Ashley (Anne Heche) in una scena del film, l’arte può e, anzi, deve rivelarsi “l’espressione del senso di timore collettivo del Paese” in un rapporto, dunque, dialogico con il presente e le sue contraddizioni, il nono lavoro da regista di Onur Tukel, Catfight (2016), al quale la distribuzione italiana ha appiccicato l’orribile sottotitolo di Botte da amiche, colpisce in pieno l’obiettivo. Estremamente attuale è, infatti, la sua analisi in chiave satirica della violenza che permea ogni livello della società americana e, di conseguenza, quella occidentale nel suo insieme.
L’ennesimo conflitto in Medioriente, capitanato dagli Usa con lo spauracchio del terrorismo, fa da cornice alla grottesca vicenda che vede come protagoniste due donne, ex compagne di università, la già citata Ashley Miller, pittrice omossessuale che stenta a farsi riconoscere in qualità di artista, e Veronica Salt (Sandra Oh), ‘moglie trofeo’ di Stanley (Damian Young) – anch’egli omosessuale, innamorato segretamente di Carl (Peter Jacobson), il suo socio in affari – il quale, avendo ottenuto un contratto col governo per lo smaltimento delle macerie nelle zone interessate dai bombardamenti, spera di fare così enormi profitti. La guerra come business in grado di aprire nuovi mercati nel contesto di un sistema economico – quello capitalista – destinato a subire ciclicamente delle crisi strutturali, si pone già quale elemento di fondamentale importanza nell’economia narrativa del lavoro di Tukel. Emblematico, da questo punto di vista, il brindisi proposto da Stanley in occasione della festa di compleanno di Carl – “Un brindisi alle macerie!” – nonché la battuta pronunciata da quest’ultimo poco prima di fronte a una comparsa che gli comunica per tale motivo le sue felicitazioni riguardo al fatto che anche i democratici benestanti abbiano cambiato opinione sulla necessità del conflitto in Medioriente, segno di quanto la logica imperialista a stelle e strisce sia trasversale a entrambi i maggiori partiti politici: “Più dura la guerra, meglio è, per quanto mi riguarda”. È questo anche il contesto in cui le due amiche/nemiche si rincontrano casualmente, dopo anni di distacco l’una dall’altra. Lisa (Alicia Silverstone), la ragazza di Ashley, ha convinto, infatti, quest’ultima a lavorare con lei come addetta al catering per la festa di Carl, dove è presente anche Veronica. Ma già dai primi dialoghi che coinvolgono le due ex compagne di università si percepisce l’enorme tensione che regna tra loro, destinata a sfociare in una vera e propria rissa in seguito alla quale Veronica, cadendo da sola dalle scale – particolare significativo su cui torneremo più avanti – resta in coma.
A questo punto, vale la pena aprire una breve parentesi sul titolo, Catfight, il quale deriva dal termine con cui, a partire dagli anni Quaranta, si usava indicare negli Stati Uniti appunto uno scontro stereotipizzato tra donne – solitamente una bionda e una bruna – contraddistinto da graffi, schiaffi, tirate di capelli e indumenti stracciati. Al contrario, Tukel ci mostra una violenza che, seppur resa quasi farsesca dalla colonna sonora che l’accompagna e dal taglio fumettistico di chiara matrice tarantiniana dato alle immagini, resta una violenza estremante efferata – pugni, calci, sangue, labbra spaccate, ematomi vari al posto della blanda caricatura a cui il titolo del film si riferisce. Dimodoché risulta chiaro il principale intento del regista turco-americano: mettere alla berlina le ipocrisie e le contraddizioni del mondo liberal statunitense, tra cui un femminismo all’acqua di rose che, prescindendo dalla struttura economica della società e dalle ripercussioni che essa ha nella sfera sovrastrutturale, pretenderebbe di fondarsi su una astorica e, dunque, idealistica differenza tra uomo e donna, secondo cui queste ultime sarebbero ontologicamente più pacifiche e sensibili, mentre la guerra e la violenza in generale risulterebbero così prodotti esclusivamente maschili. Peccato che, adottando un simile punto di vista, sia veramente difficile spiegare l’esistenza nella storia di tante Lady Macbeth come Margaret Thatcher, Victoria Nuland, Hillary Clinton o, in tempi più recenti, con particolare riferimento all’unanime consenso verso l’invio di armi in Ucraina in barba a qualsiasi tentativo di raggiungere la pace per via diplomatica, l’ultraconservatrice Giorgia Meloni, la premier finlandese Sanna Marin, socialdemocratica, o quella estone Kaja Kallas del Partito Riformatore, di orientamento liberale. Così come la logica imperialista a stelle e strisce è trasversale a democratici e repubblicani, la violenza lo è ai generi, nonché all’orientamento sessuale degli individui o all’etnia; e qui Tukel, nella sua impietosa critica alla società occidentale, si scaglia contro un’altra cifra tipica dell’ideologia woke, qualcosa che potremmo definire come la ‘feticizzazione della minoranza’ in seno a una borghesia caratterizzata da una morbosa coscienza infelice, dentro cui si crogiola, senza, tuttavia, essere davvero motivata a cambiare lo stato di cose presente in senso strutturale – l’unico possibile – poiché ciò significherebbe dissolvere le condizioni della sua stessa esistenza.
Tema che emerge in maniera lampante, quando un ricco collezionista di opere d’arte visita la galleria di Ashley, divenuta ormai famosa, giudicando così il suo lavoro, caratterizzato da soggetti a dir poco truculenti: “La guerra ha cambiato l’atteggiamento mentale della gente, la coscrizione ha resto accettabili gli orrori della guerra, e lei ha capitalizzato”. È qui che Ashley risponde con la frase che citavamo in apertura all’articolo, secondo cui le sue opere sarebbero l’espressione del senso di timore collettivo del Paese. Ma lo sono davvero? O il suo non è piuttosto, come le suggerisce il collezionista, un approfittarsi di tale senso di timore? Si tratta di una sottilissima linea di confine, sulla quale si pone, tra l’altro, lo stesso lavoro di Tukel in quanto film di denuncia, sicché il dialogo tra Ashley e il collezionista potrebbe essere letto in chiave addirittura meta-cinematografica e i quadri di lei porsi alla stregua di una mise en abyme rispetto alla storia raccontata dal regista. In effetti, già Debord ci aveva avvisato che nelle società in cui il Capitale ha raggiunto un tale livello di accumulazione da divenire immagine, qualsiasi rapporto tra individui risulta essere mediato appunto da immagini, dimodoché persino la critica allo status quo è destinata a essere sussunta al mondo delle merci in una logica spettacolare. Pasolini, tra gli altri, si rendeva perfettamente conto di questa impasse: il lavoro culturale è necessario a trasmettere un sapere che sia in grado di produrre un cambiamento nella società in senso rivoluzionario; ma inevitabilmente i mezzi con cui diffondere tale sapere si trovano in seno allo stesso sistema che si vorrebbe sovvertire. Ne consegue un continuo braccio di ferro tra l’artista engagé, il quale spera di sfruttare contro il sistema i mezzi del sistema, e appunto il sistema, che intende semplicemente spremere dall’artista engagé il massimo profitto. Del resto, l’alternativa a ciò, sarebbe il suicidio intellettuale (1).
Eppure non si può ignorare che, con l’avvento del consumismo e la conseguente introiezione dell’ideologia borghese da parte di tutte le classi sociali – rispetto alla quale l’uomo a una dimensione di cui parlava Marcuse rappresenta il risultato finale – la Storia si riduce a essere la storia della borghesia impegnata in uno sterile confronto dialettico con se stessa. Il che è appunto ciò che emerge nel film di Tukel dalla relazione tra Ashley e il suo pubblico. A tal proposito, è interessante notare, inoltre, il rapporto semantico stabilito dal regista tra i dipinti di Ashley e i coniglietti felici che la sua assistente Sally (Ariel Kavoussi) si diverte a disegnare nelle pause dal lavoro – soggetti all’apparenza agli antipodi, destinati a rivelarsi, invece, facce della medesima medaglia. Non per niente, entrambe le loro tecniche pittoriche prevedono la stilizzazione a suggerire, in chiave simbolica, un rapporto estremamente approssimativo, autocompiaciuto e pregiudiziale nei confronti della realtà, a differenza dei lavori di Kip (Giullian Yao Gioiello), figlio di Veronica – anch’egli caratterizzato da una grande passione per l’arte, malvista in famiglia – i quali tendono, al contrario, a uno spiccato realismo. Nella struttura narrativa di impianto quasi allegorico proposta da Tukel, dove ogni personaggio si fa portatore di un tema, il suo è lo sguardo ‘puro’ e stupito del bambino di fronte al mondo – uno sguardo non ancora corrotto dalla logica complementare che interessa, invece, le opere di Ashley e Sally, dove la violenza della società capitalista viene come riassorbita ed esorcizzata dalla sua ostentazione spettacolare nel caso della prima, mentre la seconda si limita a negare tale violenza in termini prettamente consolatori. Risulta chiaro allora il valore simbolico attribuito al rosso, colore prediletto da Ashley, e al blu di Sally, con particolare riferimento alla scena in cui l’artista rimprovera ferocemente la sua assistente per aver appiccicato delle etichette azzurre alle confezioni delle opere vendute, mostrandosi così una degna compartecipe della violenza che pretenderebbe di denunciare. Altro dettaglio non indifferente, quando Ashley domanda a Sally se le ha mai visto utilizzare del blu nei suoi dipinti, quest’ultima indica un quadro alle spalle della prima, dove effettivamente si notano alcune macchie del colore in oggetto – ulteriore conferma, sul piano metaforico, di come le visioni estetiche di entrambe le donne, opposte all’apparenza, si compenetrino a vicenda per formare un tutto unico.
In rapporto a questo tema, bisogna, inoltre, considerare il fatto che, parafrasando la battuta sopracitata del collezionista d’arte, Ashley ha successo nel momento in cui il Congresso stabilisce la coscrizione obbligatoria insieme all’abbassamento dell’età minima per la leva a sedici anni – quando cioè anche la borghesia si sente colpita dalla violenza del sistema, di cui essa stessa è causa ed effetto, nel quotidiano massacro dei propri figli. Non per niente, Kip, abbandonato il sogno di diventare un artista e partito volontario per la guerra sulla scia di un discorso tenutogli dalla madre poco prima di entrare in coma, muore in Medioriente.
E non è la sola cattiva notizia che attende Veronica al suo risveglio, dopo due anni. Il marito, infatti, si è suicidato, sparandosi un colpo di fucile alla testa, e il conto in banca è andato lentamente, ma inesorabilmente assottigliandosi per pagare le spese ospedaliere, fino a esaurirsi del tutto. A emergere qui è sempre il tema della violenza messa in rapporto a un sistema economico per il quale ogni cosa, persino la salute, deve essere ridotta a merce – un sistema improntato a uno spietato darwinismo sociale in cui anche l’individuo, considerato alla stregua di un’azienda, può fallire in termini legali.
Altre contraddizioni tipicamente statunitensi emergono dal dialogo che Veronica ha con Donna (Myra Lucretia Taylor), la sua ex cameriera, ora assunta dall’ospedale in qualità di inserviente, la quale, a proposito dell’abbassamento dell’età minima per la leva militare a sedici anni, spiega: “L’ha deciso il Congresso, hanno detto che, se hai l’età per guidare, allora hai anche l’età per uccidere” – mentre, per consumare alcolici, è necessario avere sempre ventun anni. Donna, rimasta l’ultimo collegamento di Veronica con la sua vecchia vita, sarà anche colei che offrirà alla prima ospitalità nella propria casa, nonostante fosse pagata pochissimo ai tempi in cui lavorava per la famiglia Salt. L’unico motivo per cui accetta di aiutare Veronica, trovandole pure un lavoro come inserviente, sembrerebbe, dunque, ascriversi all’intenzione dichiarata di essere una ‘brava cristiana’. Ma il ritorno del figlio di Donna in licenza, anch’egli impegnato come soldato nel conflitto in Medioriente, romperà questo fragile equilibrio. La scena che riunisce i tre al tavolo della ex cameriera è molto interessante in quanto emerge qui come la propaganda agisca anche e soprattutto in seno agli strati sociali più vulnerabili, principali vittime del modello economico a stelle e strisce, essendo Donna e il figlio convinti di stare davvero combattendo una battaglia per la libertà contro il terrorismo e non semplicemente dando il proprio supporto agli interessi geopolitici degli Stati Uniti e delle multinazionali legate al mercato della guerra.
Dopo una breve permanenza in uno squallido motel, durante la quale Veronica si decide finalmente ad aprire la scatola consegnatale da Donna al suo risveglio, trovandovi all’interno, tra le altre cose, una telecamera con sopra registrati alcuni video di Kip già soldato in Medioriente – oggetto destinato ad avere un ruolo di primo piano nel finale del film – Veronica è costretta, volente o nolente, a trasferirsi dalla zia Charlie (Amy Hill), l’unica parente rimastale e, a detta della nipote, totalmente pazza. Si tratta di un personaggio estremamente importante su cui torneremo in seguito. Nel frattempo, soffermiamoci ancora per un istante su Veronica e, in particolare, sulla scena in cui si reca a una mostra di Ashley. Più di ogni altra cosa, è la visione di un quadro ritraente il suo stesso volto deturpato dai segni delle percosse a scatenare in lei una crisi di rabbia, che viene scambiata dai partecipanti al vernissage per una performance artistica, ulteriore conferma di come in seno alla società dello spettacolo nulla – nemmeno la violenza – sia più vissuto come reale, dimodoché viene a crearsi una vera e propria scissione tra le immagini e la vita: “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso” (2). Scena che fa pendant con la grottesca trasmissione televisiva a cui assistono ciclicamente vari personaggi del film di Tukel, dove il presentatore, dopo aver elencato in chiave satirica tutta una serie di verità sacrosante in rapporto alla guerra in Medioriente, lascia spazio alla ‘macchina delle scoregge’, un uomo in perizoma che si aggira per lo schermo emettendo una serie di rumorose flatulenze, scatenando così l’ilarità del pubblico. La Storia, sosteneva Marx, aggiustando una precedente citazione di Hegel, si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa; oggi ci troviamo di fronte all’ennesima replica della Storia: la farsa è diventata esponenziale. Gli effetti della violenza, tuttavia, restano drammaticamente concreti, com’è destinata a sperimentare anche Ashley sulla propria pelle.
Dopo avere inseguito Veronica in uno sfasciacarrozze – luogo dalla chiara valenza simbolica – le due tornano per la seconda volta a darsele di santa ragione, arrivando a usare rispettivamente un martello e una chiave inglese per colpirsi. Questa volta sarà Ashley ad avere la peggio, tanto che, dopo essere andata a sbattere da sola contro un ripiano sulla cui cima è disposto in bilico un mattone di cemento, causandone la caduta sulla propria testa, finirà in coma a sua volta. Ed è giunto ormai il momento di spiegare perché abbia tanta importanza il fatto che il ‘colpo di grazia’ alle due donne sia sempre auto-inferto.
In queste pagine già abbiamo parlato delle teorie di René Girard a proposito della violenza (3). Secondo l’antropologo francese, essa è strettamente legata alla dinamica triangolare del desiderio per cui quest’ultimo non si risolverebbe in un rapporto diretto tra soggetto e oggetto, bensì al vertice ci sarebbe un mediatore, il quale, possedendo o desiderando l’oggetto, porterebbe il soggetto a desiderarlo a propria volta. Ogni desiderio è, dunque, un desiderio imitato. Il che conduce inevitabilmente soggetto e mediatore a confliggere, e, poiché la violenza stessa è sottoposta al processo mimetico – dal greco μίμησις, imitazione – sganciandosi dall’iniziale oggetto del contendere, essa tende a espandersi a tutta la comunità in una fatale coazione a ripetere. Diventa allora chiara, in questa prospettiva, l’importanza simbolica relativa all’assoluta specularità dei percorsi di Ashley e Veronica nel film di Tukel: all’ascesa dell’una corrisponde inesorabilmente la caduta dell’altra. Si tratta, tuttavia, di un Altro solo apparente, poiché ciò che l’Io vede riflesso in tale figura è sempre se stesso in forma di rivale rispetto al proprio desiderio – nel caso di Ashley e Veronica, la ricchezza e il riconoscimento sociale visti come attributi in grado di conferire una maggiore pienezza ontologica. Ne consegue che, a livello poetico-metaforico, ogni colpo che infliggiamo agli altri è, in realtà, un colpo inferto a noi stessi, essendo la violenza una sorta di contagio nel contesto del quale tutti ricoprono allo stesso tempo i ruoli di vittime e carnefici.
Quando Ashley si risveglia dal coma, dopo due anni, al posto di Donna per Veronica, trova Sally ad attenderla. Nel frattempo, la guerra è finita, motivo per cui l’atteggiamento mentale della gente è mutato, e i quadri dell’artista non interessano più. Come per una sorta di contrappasso, sono i coniglietti di Sally a riscuotere ora un grande successo, tanto che la ragazza ha già realizzato un libro a fumetti tradotto in moltissime lingue e del quale ha addirittura venduto i diritti a Hollywood per una riduzione cinematografica. Il conto in banca di Ashley è andato lentamente, ma inesorabilmente esaurendosi per pagare le spese ospedaliere: una storia che abbiamo già visto. Inoltre, anche lei ha perduto un figlio, del quale era rimasta incinta per mezzo della fecondazione assistita e portava in grembo prima di entrare in coma. Lisa l’ha lasciata per un uomo che inaspettatamente, considerata la sterilità della donna, le ha dato un bambino.
E vale la pena ora aprire una parentesi sul morboso atteggiamento di questo personaggio in rapporto al tema della maternità a cui aveva fatto da contraltare la freddezza di Ashley nel periodo della sua ascesa sociale in qualità di artista. Emblematica, da questo punto di vista, la scena in cui Lisa scarta i regali di alcune amiche per il nascituro e finisce per identificare in ognuno di essi un rischio per la salute di quest’ultimo, mentre Ashley realizza un disegno in cui una donna partorisce una sorta di demone. Inoltre, il pupazzo di plastica del neonato che Lisa si ostina a portare con sé ovunque vada per fare esperienza rimanda al tema della confusione tra realtà e finzione in seno alla società dello spettacolo, sottolineato, tra l’altro, da un litigio di coppia, durante il quale Ashley grida alla compagna: “Sai cosa spaventa me, invece? La tua ossessione per un bambino che non è ancora nato. Sai che, ogni volta che ti vedo con quel coso al petto, mi viene voglia di buttarmi dalla finestra? È un bambino finto! È finto! Non è reale!” Particolare degno di nota, considerando gli intenti satirici di Tukel, il pupazzo del bebè è nero – e non avrebbe potuto essere altrimenti, viste le contraddizioni del mondo liberal statunitense, votato alla retorica dell’inclusività, senza, tuttavia, mettere mai in discussione le cause strutturali che determinano fenomeni quali il razzismo (4). Va da sé che lo stesso discorso potrebbe applicarsi benissimo al patriarcato, dimodoché risulta estremamente significativa, sul piano simbolico, la scelta di Lisa di prendersi un uomo come compagno in modo da soddisfare così il suo desiderio totalizzante di maternità.
Tornando ad Ashley, dopo aver compreso che l’ospitalità offertale da Sally non è dovuta a gentilezza, bensì a uno spirito di rivalsa nei suoi confronti, sottolineato, tra l’altro, dal ribaltamento di ruoli tra artista e assistente nello stesso studio in cui le due donne lavoravano e lavorano tuttora – e qui a emergere di nuovo è il tema della violenza, declinata adesso a livello psicologico, in rapporto a un personaggio ingenuo e bonario all’apparenza, del quale vale la pena riportare le seguenti parole a conferma del fatto che, una volta innescato, nessuno risulta essere immune al contagio della crisi mimetica: “Non ti aiuto… È una grande gioia per me vederti ridotta così” – dopo aver compreso ciò, dicevamo, ad Ashley non resta altro scopo nella vita che distruggere Veronica. Sarà un biglietto dell’autobus ritrovato nella scatola con i suoi ricordi consegnatale da Lisa a permetterle di rintracciare la donna, trasferitasi, nel frattempo, a casa della zia Charlie, la quale vive come un’eremita tra i boschi del Maine.
Veronica, tuttavia, dà l’impressione di essere maturata nel frattempo. Non odia più Ashley. Al contrario, lontano dalla società, sembra aver raggiunto una sorta di pace spirituale, grazie anche e soprattutto ai video del figlio, che l’hanno spronata in tal senso. Dopo aver offerto la colazione ad Ashley, le propone di vederne qualcuno insieme. Senonché l’ex artista rovescia accidentalmente un bicchiere d’acqua sulla telecamera, provocandone lo spegnimento e la conseguente furia di Veronica. In breve, le due tornano a darsele di santa ragione.
Ed estremamente significativa è la scelta registica di chiudere il film su un’inquadratura della telecamera che torna a funzionare, mentre Ashley e Veronica si azzuffano nel bosco. Di nuovo, a emergere qui è l’assurdità di una violenza destinata a ripetersi fatalmente nella Storia in una dinamica ormai fine a se stessa. Una violenza che la zia Charlie osserva dalla finestra della sua camera da letto con lo sguardo rattristato di un profeta impotente. Come in una tragedia shakespeariana, ella è il fool che dice la verità, nonché il centro morale del film di Tukel. La sua convinzione relativa a tentacoli che emergeranno dal nucleo terrestre – chiara metafora dell’inconscio umano – per distruggere tutto, infatti, non sembra poi così delirante, se la si considera in rapporto alla crisi mimetica individuata da Girard. A tal proposito, anche la sua scelta di sottrazione rispetto alla società, nella quale, a prima vista, sembrerebbe riverberarsi il mito rousseauiano del ‘buon selvaggio’, va letta in chiave simbolica: oltre a parlarci dello stretto legame di zia Charlie con la vita in un mondo che si riproduce ciclicamente all’insegna di Thanatos – legame esplicitato dall’abitudine un po’ hippy di abbracciare gli alberi e dar loro un nome – ci rivela la necessità di trovare strade totalmente altre che permettano di rompere, da un punto di vista antropologico, con il meccanismo vittimario analizzato da Girard e, sul piano sociale ed economico, con il capitalismo giunto alla sua fase consumistica, dove l’avvento dei falsi bisogni non ha fatto altro che esasperare la dinamica triangolare del desiderio e i conflitti relativi in un contesto già permeato alla base dall’ideologia della competitività. Del resto, per citare una battuta di Ashley all’inizio del film, rispetto alla quale il suo percorso dimostra, tuttavia, una netta cesura tra teoria e prassi, laddove il personaggio della zia Charlie le riunisce: “Non serve la vera follia per farci uscire dalla follia quotidiana?”
1) Cfr. Iacopo Adami, Quando Efesto sfida Zeus, Paginauno n. 75/2022
2) Guy Debord, La società dello spettacolo, Massari Editore
3) Cfr. Iacopo Adami, L’inganno delle apparenze, Paginauno n. 77/2022 e Il tempo del disincanto, Paginauno n. 78/2022
4) Cfr. Iacopo Adami, La colonia interna, Paginuno n. 73/2021