Come agiscono le imprese minerarie, tra interesse privato e repressione di Stato
“Faremo tutto il possibile perché questa miniera se ne vada dalla nostra regione, La Guajira, perché con una miniera non possiamo vivere. O loro o noi.” (1) Samuel Arregoces è uno dei líder di Tabaco, comunità afrodiscendente stabilitasi nel 1780 nel dipartimento La Guajira, nel nord della Colombia. Una storia di oltre due secoli spazzata via un giorno di agosto del 2001 dall’avanzare della miniera di carbone a cielo aperto più grande dell’America Latina, El Cerrejón. Circa 400 famiglie, tra cui quella di Samuel, rimangono senza terra. Sorte condivisa con le altre comunità, indigene e contadine, che da centinaia di anni popolano la regione.
Ma l’arrivo della miniera non significa soltanto l’esproprio forzato dei territori. Devastazione ambientale, problemi di salute, impoverimento, violazione dei diritti umani sono i frutti del desarrollo, lo ‘sviluppo’ che l’estrazione di carbone porta con sé. “Con una miniera non si può convivere”, ripete Samuel “perché è sinonimo di miseria”.
L’estrattivismo
Le condizioni di vita imposte alle comunità de La Guajira non sono l’eccezione. Sono il lato nascosto del ‘progresso’ industriale e tecnologico capitalista. L’estrazione di materie prime dai Paesi del Sud del mondo allo scopo di alimentare la produzione mondiale, infatti, rappresenta la condizione di esistenza del processo di accumulazione costitutivo del capitalismo: un modo di produzione che necessita di grandi quantità di risorse estratte ad alta intensità, da destinare all’esportazione – seguendo le catene del valore internazionali – nei Paesi in cui verranno trasformate nel prodotto finale (2). Questo processo – che prende il nome di estrattivismo e che ha come unico fine la realizzazione e massimizzazione del profitto – genera ingenti danni sociali, economici e ambientali, una devastazione necessaria a lasciare spazio all’incedere inarrestabile dell’estrazione di idrocarburi, metalli e minerali, dell’industria agroalimentare – con monocolture da esportazione e allevamenti intensivi – e della costruzione delle grandi infrastrutture funzionali all’espropriazione delle risorse. Si costituiscono in questo modo delle economie di enclave, zone strutturalmente dipendenti e in mano al capitale straniero, isolate dal resto del Paese, destinatarie di investimenti, tecnologie e personale specializzato di importazione, che impoveriscono il tessuto sociale di intere comunità: popoli di pescatori, piccoli allevatori, contadini dediti all’agricoltura famigliare privati della terra e senza più accesso all’acqua, costretti a trovare nuovi modi di sussistenza altrove, con perdita della sovranità alimentare e una lenta scomparsa delle tradizioni e dei saperi tramandati da generazioni, la vera ricchezza di queste comunità.
Una condizione ben conosciuta nelle zone rurali di America Latina, Africa e Asia – il cosiddetto Terzo Mondo – e non certo da oggi. Se durante il colonialismo gli Stati erano i protagonisti assoluti nella corsa alla conquista di nuovi territori e nuove risorse, ed esercitavano un dominio diretto ed esclusivo sulle colonie, con il neocolonialismo questo dominio prende la forma di una forte dipendenza, sul piano finanziario, economico e tecnologico, dei Paesi esportatori di materie prime nei confronti del Nord, con le grandi multinazionali a condurre questo saccheggio inesorabile. Grazie all’avanzamento delle conoscenze scientifiche, inoltre, si aprono nuove possibilità di accumulazione, con lo sfruttamento di risorse un tempo non accessibili o di importanza marginale, il cambiamento dei processi produttivi e la creazione di nuove necessità: emblematica in tal senso l’esplosione degli ultimi anni del mercato delle terre rare, imprescindibili per la realizzazione della tanto sbandierata transizione ecologica e digitale…
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