Un nuovo modo di produzione, una nuova formazione sociale e una nuova forma di potere
Incontro-dibattito sul libro Il capitalismo cibernetico. Dopo il panottico, oltre la sorveglianza, di Renato Curcio (Sensibili alle foglie, 2022), presso il Circolo Anarchico Ponte della Ghisolfa, Milano, 10 aprile 2022
Come prima cosa, vi devo annoiare con alcune premesse, altrimenti rischiamo di parlare sopra il mondo, sopra le cose che viviamo e che accadono. Due o tre premesse relative al contesto dentro il quale siamo calati da così tanti anni – fin dall’Ottocento – da non riuscire più a vederlo; è quasi diventato un termine privo di significato, una parola che non ha più emozione e che non sappiamo nemmeno più esattamente cosa sia: parlo del capitalismo. Per la nostra vita quotidiana, negli ultimi venti o trent’anni il capitalismo ha acquisito più significati tra loro intrecciati e che, allo stesso tempo, segnano grandi mutamenti per quel che riguarda le forme del potere che vi corrispondono.
‘Capitalismo’, alla fine dell’Ottocento e ai primi del Novecento, è la macchina a vapore e i telai. Quindi è Marx con tutte le sue riflessioni sul capitale, e oggi possiamo anche studiarlo nell’accademia però non ci dà molta emozione, perché i telai non ci sono più, quelle fabbriche neppure e i luddisti neanche. Siamo in un altro capitalismo.
Poi c’è stato il capitalismo industriale e qui, almeno i più vecchi di noi, qualcosa ancora ricordano: le fabbriche, le manifestazioni, i tanti operai. Ma oggi quel capitalismo non c’è più, proprio nelle cose: in un edificio c’è una università, un altro ospita eventi… E non ci sono più nemmeno i cortei di lavoratori che attraversavano questo viale, migliaia e migliaia di operai. Anche se siamo più vicini all’emozione, al ricordo, eravamo giovani e sono cose che rammentiamo e che per noi hanno significato, quel capitalismo non c’è più.
Negli ultimi vent’anni ci siamo poi avvicinati a un’idea di capitalismo digitale che ha introdotto un tipo di strumenti prima inesistenti, che non sono stati percepiti nella loro particolarità perché avevano un carattere assolutamente diverso rispetto a tutti quelli conosciuti nella storia della nostra specie. Fino al capitalismo industriale, gli strumenti mediavano l’attività delle donne e degli uomini rispetto a un territorio e a un ambiente. Servivano a fare qualcosa. Una pialla, un tornio, una penna erano strumenti che mediavano un’attività: c’eri tu e c’era lo strumento. Con il capitalismo digitale sono entrati in scena gli strumenti digitali, che hanno una natura totalmente diversa: comunicano tra di loro. Le zappe non comunicavano con i rastrelli, le penne biro non comunicavano con le stilografiche. Gli strumenti hanno quindi iniziato a fare un’altra operazione: mentre mediavano la tua attività con il mondo, comunicavano fra di loro. Pensate a uno smartphone: funziona perché è in relazione a dei server, a banche dati, a reti, è dentro una rete, è il nodo di una rete, è il momento di una rete, e quindi fa cose per consentire a te di fare cose.
Questo cambiamento è avvenuto pian piano, senza che si discutesse veramente, tant’è che anche le persone più sensibili a questi temi non hanno lì per lì percepito l’implicazione ultima di questa capacità degli strumenti di comunicare fra loro. Così non si sono accumulate conoscenze, riflessioni e anche attenzioni ai rischi e ai pericoli che si andavano accumulando nell’arco di pochissimi anni. E siamo arrivati al momento in cui il capitalismo digitale si è fatto più maturo, e alle soglie del capitalismo cibernetico, rendendoci conto che aziende che vent’anni fa non esistevano neppure erano diventate le prime imprese al mondo per fatturato, per profitti e per numero di utenze.
Nel capitalismo industriale, quando pensavamo a una grande fabbrica, il riferimento era la General Motor o, qui in Italia, la Fiat, che contava 110 mila lavoratori. Oggi parliamo di aziende che sono infinitamente e immensamente più ampie e che hanno, sì e no, 20-25 mila lavoratori, come Facebook, ma 4 miliardi di utenti, e in vent’anni si sono costruite un capitale gigantesco fornendo un servizio gratuito. Questa sorta di bacchetta di re Mida, di valore sorto dal nulla, è stata vissuta da tutti in modo passivo e parassitario: visto che dà un servizio, che c’è di male, prendiamo e vediamo a cosa può servire. Quindi l’analisi degli strumenti non è andata avanti. Siamo arrivati però a oggi, al punto in cui – prendo un fatto accaduto in questi giorni e solo a titolo di esempio – questo strumento che utilizziamo per un’infinità di cose ha cominciato a dire che i messaggi di odio contro un certo leader politico, un certo esercito, una certa etnia, una certa popolazione, sono ammessi, mentre per un altro leader politico non sono ammessi. Ossia ha iniziato a dire: usate pure il mio strumento, però io stabilisco e decido cosa questo strumento consente. Era una consapevolezza che chiunque avrebbe dovuto avere senza dover arrivare fin qui, perché è già accaduto negli anni passati che Facebook facesse da filtro alle informazioni per i palestinesi e a popoli di tutto il mondo; tuttavia non ha prodotto un grande dibattito.
E questa è in effetti una pre-premessa.
Stabilito ciò, personalmente da anni mi occupo dell’impatto delle tecnologie digitali, e ho seguito un percorso che partiva dagli strumenti per cercare di vedere quali e come si implicavano con la nostra vita. Sono arrivato fin qui, fino al punto in cui ho dovuto rivedere il paradigma, e quindi questa sera vi parlo dell’ultimo mio lavoro che rovescia lo sguardo. Non cambia strada, ma rovescia lo sguardo.
Visto che ci siamo dimenticati del contesto in cui questi strumenti lavorano, ripartiamo da lì, dalla parola ‘capitalismo’, ossia da cosa è questo capitalismo: non cosa era, non cosa è stato, cos’è oggi, cos’è in questo preciso momento questo tipo di formazione sociale e questo tipo di modo di produzione. Aziende come Facebook, ma anche Google, sono imprese che in pochi anni hanno rastrellato valore per miliardi e miliardi di dollari. Siamo cioè di fronte a società che sono le più quotate in borsa, quindi le maggiori per capitalizzazione, e nello stesso tempo quelle che fanno più profitti. Siamo quindi di fronte a imprese, prima che tecnologiche, capitalistiche.
La produzione di valore, l’accumulazione, il rastrellamento di questo valore, devono allora essere guardati con estrema attenzione, perché la vera novità storica è che i produttori di questo valore siamo diventati tutti noi. Improvvisamente abbiamo scoperto che qualunque sia il nostro orientamento politico, la nostra sensibilità rispetto ai generi culturali o alla sessualità o ai tipi di amicizie, qualunque sia l’ambito della nostra vita, è ormai messo a valore dal contesto digitale. In qualche misura, in qualche modo, produce valore. Ma magari producesse solo valore. Produce anche potere. Perché questo valore si definisce in termini di forme particolari e uniche di potere che non conoscevamo fino a oggi, e che dobbiamo cercare di conoscere velocemente, perché leggiamo ancora quel che accade con paradigmi che analizzano in una chiave non più attuale.
Ci sono oggi tre scuole di pensiero che ci raccontano le forme del potere.
Una è quella che in Italia è portata avanti da un certo tipo di sinistra, anche emblematicamente ben istituita nell’accademia, e afferma che uno dei problemi più seri che abbiamo davanti è il fatto che le democrazie in cui viviamo utilizzano l’emergenza, l’eccezione, come normalità. Il richiamo è a Carl Schmitt, un giurista tedesco che nei primi anni del ‘900, aderendo al partito nazionalsocialista, cominciò a guardare le democrazie dell’epoca ritrovandovi un abuso dello Stato di eccezione, al punto da farlo divenire normale e creare una forma autoritaria della democrazia. È un discorso che abbiamo sentito fare anche in questi ultimi tempi, e che molti noti e famosi intellettuali italiani portano, dicendo che siamo di fronte a forme di governo che fanno dell’eccezione e dell’emergenza la normalità, e dunque siamo dentro a uno Stato autoritario. Ma questa è una verità letta con gli occhi del ‘900, che nulla ci dice sul mondo in cui viviamo.
Intanto perché quel mondo, nel quale è stata formulata questa teoria, non c’è più da nessuna parte: all’epoca l’Italia era una nazione, c’era un’ideologia nazionalista, c’era persino un duce, c’era il fascismo; c’era un’alleanza con i tedeschi e ogni Paese faceva un po’ quel che voleva. Dopo il ‘45 l’Italia è diventata una colonia americana, in base ad accordi di spartizione del territorio occidentale – ci sono i documenti di Jalta – e siamo costretti a prenderne atto. Siamo pieni di basi missilistiche, di basi di droni, da qui parte un po’ di tutto. Siamo una piccola colonia americana, ci siamo adattati e lì siamo cresciuti, anche gridando, all’epoca del capitalismo industriale, “No alla NATO!”, “Usciamo dalla NATO!”, perché non ci era molto chiaro quanto fossimo piccoli, in quel contesto, nel dopoguerra. L’Italia non solo è una colonia ma è anche un Paese vincolato, da una serie di patti, a quella che si chiama Unione europea, un’aggregazione di Stati – a loro volta, quasi tutti, colonia degli Stati Uniti – che cercano di darsi un propria dimensione di potere, relativamente modesta, ma propria. È una realtà che smonta completamente il discorso sul potere dello Stato di eccezione. E infatti è sufficiente che emerga una situazione di eccezione, come quella di questi tempi, che immediatamente l’Italia corre ai ripari sotto l’ombrello della NATO. Quindi questa teoria va bene per i libri, per le discussioni teoriche, ma non per la realtà della nostra vita, da un punto di vista storico quotidiano.
Il secondo paradigma di lettura del potere, più diffuso e molto abusato, è quello del panottico, il potere foucaultiano, il potere disciplinare. È un discorso assolutamente sensato: ci sono istituzioni, non solo il carcere ma anche la famiglia, la scuola, la chiesa ecc. che determinano e decidono delle modalità di vita legate a una forma di potere centrata sulla sorveglianza degli appartenenti a quel contesto istituzionale. Prendiamo il carcere, per fare l’esempio più estremo – ma Foucault ha analizzato anche gli ospedali e altri spazi –: vi si trova una modalità di esercizio del potere un po’ subdola, che cerca di evitare l’ostentazione della violenza – che in quel rapporto gerarchico è insita e intrinseca – attraverso un coinvolgimento indiretto delle persone che vivono in quella istituzione. Si dice: siete tutti osservati, quindi se fate qualcosa che non va bene subirete una punizione; ostento un occhio che vi guarda, e chi trasgredisce si prende una bacchettata sulle mani. Lo fa uno, due, tre volte, alla fine una persone si abitua ad accomodarsi in quel contesto, che vuol dire che dissocia una parte di se stesso e casomai, per non prendere troppe legnate, fa qualcosa quando non è vista, ossia si attrezza e si organizza dentro una sorveglianza permanente.
Questa idea ha preso un po’ la mano nella lettura delle cose, perché è vero che succede questo – sono stato personalmente all’interno delle carceri – ma non esattamente come raccontato dal paradigma panottico. Perché è vero che per non prendere una legnata posso in qualche modo accomodarmi in un luogo di adattamento, ma in quel luogo respiro un po’ e poi, in qualche misura, mi aggrego con Tizio, Caio e Sempronio per immaginare un rovesciamento di quel sistema di potere. Quindi non è vero che il panottico genera, alla fin fine, un’assuefazione all’adattamento. Almeno non è così nella mia esperienza, tant’è che ho fatto delle rivolte; poi mi hanno punito, la dinamica della punizione quindi è vera. Dunque, certamente i poteri si reggono su questo meccanismo, tuttavia oggi, questo dispositivo ci dice assolutamente nulla sull’esperienza che stiamo conducendo. Andava così nelle società precedenti ma ora, all’interno di una società dove sono io stesso a produrre le informazioni della mia sorveglianza, perché mai dovrei pormi il problema di qualcuno che mi osserva? Il problema che mi devo porre è osservare me stesso: che cosa sto facendo. Perché se sono io a dirti “guarda che sto rubando la marmellata”, come posso poi affermare che c’è qualcuno che mi osserva sempre e dunque non posso rubare la marmellata e devo agire diversamente? È un paradosso che nasce da un livello di tecnologia. È un paradosso che nasce solo con il capitalismo digitale, e anzi in una fase molto avanzata del capitalismo digitale, in cui io divento l’osservatore di me stesso, senza saperlo, e il produttore dell’osservazione su me stesso, senza saperlo. O meglio, senza averne contezza, senza averne una precisa cognizione.
Veniamo ora al punto che riguarda la forma del potere cibernetico. Perché nel frattempo le tecnologie hanno fatto un passo e utilizzato un dispositivo che è stato studiato ai tempi della seconda guerra mondiale sul piano militare: un dispositivo cibernetico.
Lo possiamo identificare così: vogliamo colpire un aereo con un proiettile. Non possiamo sparare dov’è l’aereo ora, perché la pallottola impiegherà un determinato tempo per arrivare; dobbiamo quindi calcolare la rotta, la velocità, e sparare un po’ più in là. Poniamo che facciamo male i conti e sbagliamo il primo colpo: con questo errore possiamo correggere la rotta, capire di avere sbagliato perché non abbiamo calcolato bene l’angolatura, la resistenza dell’aria, mille cose… Alla fine riesco a colpirlo. Bene, questo è lo stesso meccanismo di Amazon e di Netflix, tanto per fare i nomi di due strutture che tutti conosciamo. Vediamo Netflix, la più semplice da cogliere.
La prima domanda che questo servizio vi pone, prima ancora che vi possiate persino abbonare, è molto semplice: “Dimmi un film che ti è piaciuto nella tua vita”. È il primo punto per costruire un dispositivo cibernetico. Tu rispondi, poi farai le tue scelte, e da quel momento gli algoritmi riescono a lavorare sempre meglio, conoscendo i tuoi gusti, gli orientamenti, per proporti dei prodotti che più facilmente acquisterai perché più vicini alla tua sensibilità. In tendenza, le proposte saranno sempre più vicine, così alla fine diventerai un consumatore sempre più fidelizzato. È un esempio banale, ma utile per capire il meccanismo della dimensione cibernetica e il rovesciamento del rapporto con il potere: di là ho una macchina artificiale intelligente, di qua ho un umano. In questo rapporto nasce un dialogo, ma è l’umano che lo conduce. Quindi sono io che conduco il gioco che progressivamente determina sia la produzione di valore – perché ogni mia azione produce un dato o un insieme di dati – sia la dimensione di potere – perché ogni quid di valore che produco è un quid di potere su di me, che verrà esercitato.
Il punto in cui siamo è quindi quello di entrare progressivamente in una dimensione di questa natura, dalla quale non possiamo più uscire. Perché i contesti dentro cui queste macchine intelligenti funzionano, e dentro cui noi funzioniamo, sono diventati sempre più obbliganti. Faccio un esempio: se una famiglia ha bisogno di ricevere i buoni pasto perché non ha da mangiare, e vorrebbe avere un diritto che è previsto da una legge, deve fare la SPID, cioè un’identità digitale. Deve passare dalla ‘vita di relazione’ alla ‘vita di connessione’ all’interno del sistema internet, e se non è lì, non riceverà i buoni pasto. Ma dover avere un’identità digitale non significa avere una delle tante identità che possiamo avere nella vita: è un’identità interna al sistema di internet e interna al sistema dello Stato.
Questo tipo di progressiva induzione a entrare nel continente digitale è una tendenza dalla quale non possiamo assolutamente più uscire, e più ci entriamo, più entriamo in una dimensione di potere. È questa la terza famiglia di potere, che alcuni ricercatori, Shoshana Zuboff per esempio, hanno definito ‘di sorveglianza’. È vero e falso nello stesso tempo. Perché, per un verso, la sorveglianza è gestita da enti che sono istituzionali (lo Stato, SPID ecc.) o privati, cioè direttamente aziende che realizzano un accaparramento progressivo di dati perché è funzionale al loro fatturato; però è falso nella misura in cui tutto ciò funziona solo se io lo metto in movimento. Quindi non c’è qualcuno che mi sorveglia, ma una co-azione nella sorveglianza. Il capitalismo cibernetico apre la sua nuova fase storica proprio in questo passaggio: dall’uso degli strumenti digitali si passa alla co-gestione individuale degli strumenti digitali.
È una co-gestione facilmente visibile nel fatto che quasi tutti voi avete uno smartphone e quindi, in questo momento, siete esattamente nella condizione di essere produttori di valore, perché qualunque cosa facciate – telefonate ai vostri figli, alle persone che amate, volete comprarvi un’automobile, un libro, un dolce – produce valore; non per voi ma per il dispositivo, cioè per le applicazioni che utilizzate. E qualunque valore producete, genera potere: il potere di queste grandi aziende planetarie.
Ora, però – e qui nasce un problema – queste imprese cominciano a proporsi anche come un potere che sta stretto nei poteri degli Stati. Facciamo un esempio storico: il periodo di Trump. C’è stata un’elezione negli Stati Uniti e una contestazione sul risultato finale, tra Biden e Trump; ci sono stati tumulti… non ci interessa qui sapere se erano organizzati o no, il mio è un discorso puramente teorico. In quel momento è successo un fatto storico, mai accaduto: Twitter e Facebook hanno deciso autonomamente di chiudere l’account istituzionale di Trump, l’account presidenziale, @POTUS, non gli account personali del Signor Trump. Queste due aziende, che in quel momento stavano decidendo le dimensioni di percezione sociale di quel che stava accadendo, prendono la decisione di imporre il loro sguardo sul mondo, togliere la parola al Presidente degli Stati Uniti ancora in carica.
Si è generata una discussione piuttosto in sordina, tutt’ora molto interessante e vivace, sulla nuova natura del potere, perché qui non solo abbiamo una dinamica cibernetica che genera un accrescimento di economia e di potere per alcune imprese, ma un potere che si prende l’arbitrio, o può prendersi l’arbitrio quando vuole, di chiudere la bocca a chiunque, compreso il Presidente dello Stato in cui sta. Alcuni ricercatori quindi, Kate Crawford soprattutto, iniziano a dire che non possiamo più leggere il mondo del potere come un mondo a sé, e il mondo del capitale come un mondo a sé, perché questa realtà non c’è più. Quando parliamo di queste aziende parliamo di potere militare, potere economico e potere politico, insieme; potere culturale, per metterci anche Gramsci e l’egemonia. Cioè parliamo di un intreccio che è intrinseco e strutturale a quell’istituzione, e quindi non ci consente nemmeno più di fare quelle annose discussioni di fine ‘800, e anche ‘900, sulla base economica e la sovrastruttura. Non è proprio più possibile farlo. Siamo entrati in un’epoca in cui il contesto non è più né quello economico, né quello politico, né quello militare, ma il loro intreccio. E non solo. Il loro intreccio non è una teoria, si chiama internet; il loro intreccio è una struttura portante, un’infrastruttura dalla quale non solo non ci possiamo più liberare perché fa parte della nostra vita ma è un’infrastruttura che ha un padrone, che si chiama Stati Uniti.
Sapete che la gestione dei domini di internet è americana. Possono eliminare domini, tant’è che il ministro delle Infrastrutture digitali dell’Ucraina aveva chiesto agli Stati Uniti di staccare la spina ai domini russi. Ed è molto interessante perché ci dice due cose – non politiche, seguite il mio ragionamento puramente tecnico –: la prima, che è possibile. Esiste infatti la gestione centralizzata dei domini di quello che consideriamo un mondo globale. La seconda: non è del tutto vero. La risposta sottile che Cina e Russia hanno dato, infatti, è stata: se vuoi giocare a questo gioco, giochiamo pure, siamo in grado di autonomizzare la nostra rete. Quindi internet comincia a essere una realtà in declino, proprio nel momento in cui noi arriviamo faticosamente a capire che è l’infrastruttura del nostro mondo. Domani, dopodomani, potrebbe diventare una delle strutture, e aprire quindi la strada a un multipolarismo politico, militare, economico di cui non conosciamo assolutamente i confini, ma che sicuramente ha più nulla a che vedere con la storia che è iniziata con la seconda guerra mondiale e ci ha portato fin qui.
Il mio lavoro, quindi, è un lavoro di frontiera. Se come modo di produzione capitalistico siamo giunti a questa dimensione cibernetica, intrecciata e gestita sostanzialmente dall’infrastruttura di internet occidentale, siamo anche una parte del mondo che deve decidere non solo se uscire o non entrare dalla Nato, ma anche se uscire o non entrare nel capitalismo. È diventato un problema che riguarda la nostra vita futura. E dunque è diventato di nuovo importante discutere di che cos’è, effettivamente, il capitalismo. Questa è la premessa del mio discorso.
Non voglio farvi stare qui per delle ore, quindi taglio un po’ per i campi. Mi limiterò a due passaggi essenziali, che sono conseguenti. Questo internet e questa digitalizzazione della nostra vita, che problemi ci sta ponendo? Ce ne pone di due tipi, allo stesso tempo molto forti e molto difficili da risolvere, che hanno a che fare con un’altra serie di problemi e con un’altra serie di movimenti che esistono in giro per il mondo, che non riguardano il digitale ma l’ambiente e le fonti energetiche.
Attualmente internet consuma il 10% della produzione di energia elettrica di tutto il mondo. È una quantità spaventosa, enorme, e secondo alcune stime è anche più alta. Ma internet è un sistema in espansione, che non può fare a meno di moltiplicarsi in modo esponenziale. Vi spiego perché, ed è molto semplice. Per garantirsi la sopravvivenza – quello che chiamano un ‘problema di sicurezza’ – i server che conservano i dati che sono la ricchezza accumulata e che noi produciamo, moltiplicano le loro vite. Un esempio semplice: quando inviate un’email, poniamo con gmail, su Google, questa email viene immediatamente mandata in sei diverse parti del mondo, in sei banche dati, perché se ci fosse un hackeraggio da qualche parte le altre cinque subentrano, se cade una bomba da un’altra parte ne restano quattro; ma se ne restano quattro, immediatamente queste quattro ne producono altre sei, ed è un percorso infinito di reduplicazione dei dati. Perché?
Perché i dati non servono soltanto a realizzare valore e potere, ma a tantissime altre cose. A internet per crescere, per esempio, e sulla crescita è fondata l’intelligenza artificiale: bisogna addestrare le macchine a non fare troppi errori. Perché se uso il riconoscimento facciale, e poi i software confondono una scimmia con una persona, capite che ci possono essere seri problemi. Così seri che Londra, per esempio, la metropoli europea con il maggior numero di telecamere sparse per la città, ha dovuto rinunciare al riconoscimento facciale perché il numero degli errori valutati in sede giudiziaria era esageratamente alto. Ha quindi dovuto implementare la ricerca sui volti, e per farlo ci vogliono miliardi di persone che carichino su internet le foto dei genitori, dei nonni, dei figli; occorre tempo, perché una persona cambia negli anni e gli algoritmi devono essere addestrati a riconoscere il cambiamento, e anche aspetti più tecnici. Ci vogliono quindi infinite quantità di dati, e i dati che introduciamo in internet servono anche a questo, ma devono essere reduplicati. Una reduplicazione infinita che significa energia sprecata, sprecata per la nostra specie, perché utilizzata per tenere in piedi questa immensa memoria di aziende private che se ne servono solamente per fare i loro profitti. È un problema che ci riguarda.
In più, questa energia deve essere prodotta. Come? Con il carbone, come durante il capitalismo ottocentesco? No, non abbiamo più le macchine a vapore. Con il petrolio? È un po’ più complicato, perché abbiamo visto Afghanistan, Iraq, Libia, anzi li stiamo vedendo: ovunque ci sia una goccia di petrolio, c’è una guerra. Una guerra il cui numero di morti è infinitamente superiore al numero di morti di questo conflitto che stiamo vedendo in questi giorni, che ci fanno apparire come la guerra delle guerre. Non dimentichiamoci l’Iraq, non dimentichiamo che quel Paese è stato raso al suolo per un signore che si è presentato alle telecamere di tutto il mondo con un boccettino, dicendo che era la prova che stavano fabbricando armi biologiche per minacciare l’umanità. In questo momento siamo dentro un processo di costruzione della percezione: nelle nuove forme del potere è una delle prime cose messe in atto attraverso, appunto, la dimensione cibernetica. Vale a dire non più con un’operazione di massa, come nel Novecento: televisione radio e giornali. Oggi potete anche non leggere i giornali, non guardare la televisione, tanto tutto passa nel circuito internettiano, cioè dalla costruzione dell’informazione personalizzata.
Quindi, primo punto: fonte energetica e quantità di energia che viene spesa a questo fine. Non a scopo di puro consumo, cioè fare pubblicità, per farti comprare i biscotti che più ti piacciono o farti vedere il film più vicino alla tua sensibilità, ma per la costruzione della percezione sociale degli eventi. Ed è un problema che ha a che fare con i poteri che si incrociano in queste grandi aziende capitalistiche, quindi con questa nuova forma di potere che è quella che io chiamo ‘cibernetico’.
La seconda dimensione che ci pone questo mondo è quella della sua alimentazione. Internet non è solamente una macchina che va a elettricità, per cui ha bisogno di questa fonte energetica, ma è una macchina elettromagnetica. Tutta l’intelligenza artificiale funziona sull’elettromagnetismo, è indispensabile per le automobili a batteria elettrica e per tutte le batterie che vengono utilizzate dai dispositivi digitali, e ha bisogno di materie prime come il litio, il tantalio, il cromo, il cobalto, il coltan e via di seguito. Una trentina di metalli che vengono chiamati ‘metalli rari’ e ‘terre rare’, presenti solo in alcune parti del mondo (1). Ed ecco che allora internet chiama le guerre per controllare questi metalli, senza i quali non si può sviluppare.
Uno dei paradossi più interessanti creati da questa situazione è il rapporto tra il mondo occidentale e la Cina. Sappiamo che la grande maggioranza dei dispositivi sono assemblati in Cina, ma sono anche prodotti lì, da aziende occidentali, per la semplice ragione che la Cina, prima produttrice di terre rare, non vuole venderle. Ha chiuso il mercato già anni fa, dicendo: volete questi minerali? Bene, ve li vendiamo, ma venite a produrre da noi. Ebbene questo ciclo, rispetto al ragionamento che facevo prima, crea un grosso paradosso, perché se internet perde la sua dimensione globale, vale a dire la capacità di essere gestibile e gestito in tutto il mondo senza discriminazioni – come invece sta avvenendo in questi ultimi mesi – significa che dobbiamo andare incontro a una trasformazione degli equilibri nati dalla seconda guerra mondiale, sia per quel che riguarda l’Occidente, sia per quel che riguarda Taiwan, sia per quel che riguarda gli assetti geopolitici globali. È un problema strettamente implicato alla tecnologia, non ci può essere sviluppo tecnologico se non lo si risolve. E lo si può fare in due soli modi.
Uno: con le guerre, che è quello che purtroppo stiamo vedendo. Due: con una presa di consapevolezza che è giunto il momento – questa è la mia tesi – di dire che con il capitalismo bisogna farla finita. È giunto il momento in cui storicamente il capitalismo comincia a dimostrare di non essere il modo di produzione in grado di consentire uno sviluppo pacifico dell’umanità. Anzi, è un problema. E non solo, come abbiamo detto negli anni passati, perché crea sfruttamento che produce diseguaglianze. In ambito occidentale sono diventate talmente enormi da non poter essere neanche più quantificate. Tim Cook, di Apple, ha un salario mensile 1.460 volte superiore al salario medio dei suoi dipendenti. Sono le sproporzioni equivalenti a quelle che abbiamo nel mondo. Nel contesto occidentale, una massa generalizzata di persone – come voi, come me – sopravvive in uno stato di quasi povertà, galleggia, si barcamena, cerca di non finire nel disastro. Tutte le piccole e medie strutture – non parliamo di quelle culturali, che fanno un lavoro come il mio, che hanno a che fare con un mercato poverissimo, ma persino chi produce le pizze – oggi sono in uno stato simile. E nello stesso tempo abbiamo aziende che negli ultimi due anni, e in particolare negli ultimi due mesi, hanno aumentato del 44% i loro profitti. Come Leonardo, che in Italia produce armi e che ha nell’Italia un governo che dispone che una bella quota di fondi nazionali vadano per le armi all’Ucraina. Questa è una menzogna. I fondi non vanno all’Ucraina, vanno alla produzione della Leonardo, che è anche l’azienda che, insieme a Microsoft, dovrebbe gestire il cloud italiano nel processo della digitalizzazione dell’amministrazione pubblica. Leonardo insieme a Microsoft, vale a dire insieme al più grosso cloud che c’è al mondo, americano.
Tiro le somme di questo discorso. Siamo di nuovo di fronte a un problema: capire bene cos’è oggi il capitalismo. Perché la nostra vita dipende da questo, perché lo sviluppo di questa dinamica di conflitto geopolitico mette in discussione anche la nostra vita, intesa come biologia, perché, è evidente – è implicito in quel che ho detto – che il filo conduttore del discorso è la non esistenza dell’area geopolitica europea. Esiste solo strumentalmente agli interessi degli Stati Uniti e alla soluzione del conflitto che riguarda il mondo del capitalismo cibernetico, ossia per le fonti energetiche e le terre rare. Un conflitto nel quale l’ambiente e gli umani sono sacrificati, sono quelli che devono pagare il prezzo. E allora dobbiamo decidere se lo vogliamo pagare e come, e cosa possiamo fare, visto che siamo stati singolarizzati al punto che negli ultimi vent’anni sono state distrutte tutte le forme elementari di socialità e di appartenenza. Il capitalismo cibernetico si vanta di essere in grado di comunicare e di operare con ciascun individuo della società, non con aree in quanto tali. Ciascun individuo, perché è con ciascun individuo che fa il suo gioco di economia e di potere. Da questo punto di vista dobbiamo porci questo problema, ed è la domanda di oggi. Una domanda che chiede una riflessione sulla differenza radicale che esiste tra le connessioni e le relazioni.
In ‘connessione’ siamo singole unità che producono valore e potere per chi sta facendo questo brutto gioco nei confronti delle nostre vite. Ma nella realtà, non siamo in primo luogo persone cibernetiche; lo siamo solo in secondo. In primo luogo siamo delle persone reali, qui presenti. E ci incontriamo. Dobbiamo recuperare la dimensione della persona. Nel libro cito un documento della National Security Agency americana in cui si distingue tra ‘persone cibernetiche’ e ‘persone’: afferma che il loro compito, come internet, è mappare l’intero universo delle persone cibernetiche. Chi sono le persone cibernetiche? Tutte le persone che dispongono di un dispositivo cibernetico, vale a dire uno smartphone, uno strumento mobile, un tablet o un computer. Mapparle tutte è ormai un gioco da ragazzi, creare un sistema adeguato di banche dati – quello che tutti gli Stati più arretrati come l’Italia stanno facendo, con la digitalizzazione della pubblica amministrazione – e poi lavorare sulla persona cibernetica per ottenere effetti sulla persona reale.
Noi dobbiamo rovesciare il percorso. Non mappare nessuno e cercare di ricostruire quei sistemi di legami che sono stati distrutti, legami volontari, tra persone, perché si possa di nuovo riprendere a immaginare dei percorsi che, casomai utilizzano le tecnologie digitali, casomai utilizzano persino l’intelligenza artificiale, ma in un contesto non capitalistico. Questo è il compito che ci aspetta, se ci daranno il tempo per realizzarlo.
Introduco una parola che mi auguro trovi attenzione, perché anche questa è una parola con una lunga storia ma una breve vita: autogestione. Oggi possiamo pensare di andare oltre il capitalismo immaginando dei percorsi di autogestione vera, profonda. Come Sensibili alle foglie viviamo da trent’anni in totale autogestione, fuori dalle dimensioni istituzionali note, e ci troviamo veramente bene. Ci confrontiamo con le strutture di autogestione dell’America Latina, e ne stanno nascendo diverse anche in Europa. Si possono immaginare forme organizzative efficienti, assolutamente competitive, diciamo così, e fuori dalle dimensioni proposte dal mercato delle merci. Lo dico in una prospettiva ampia, non minoritaria, come una linea di uscita dal capitalismo che non dice “prima dobbiamo sconfiggere questo modo di produzione, poi, dopo…”. Non è accaduto così all’origine della storia del capitalismo stesso: la borghesia si è formata all’interno del contesto delle aristocrazie dentro il quale c’erano re, forme di potere completamente diverse; le botteghe artigiane hanno cominciato a costruire il loro mondo, a costruire un nuovo modo di produzione, che è un nuovo modo di vivere, di relazionarsi agli altri, di concepire gli strumenti, di progettarli, di immaginarli… e quindi anche di immaginare le tecnologie digitali. Possiamo fare tante cose, e naturalmente questo è un sentiero di esplorazione.
Io oggi sono qui, con i miei libri, con altri libri della casa editrice, che mi sono portato in giro per l’Europa in questo modo; vado dove qualcuno ha piacere di chiamarmi, porto il mio lavoro, incontro persone, costruisco relazioni, e sopravvivo a questo mondo solo con le relazioni che sono riuscito a crearmi. Allora: qual è la mia ricchezza sociale? I rapporti. Più rapporti istituisco e costruisco, più ho ricchezza. Aumentare le nostre possibilità di relazione significa diventare più ricchi, nel senso che vi dava Marx: diceva che ci sono due forme di ricchezza, il denaro e le relazioni. Se capiamo bene l’importanza delle relazioni, allora capiamo quale crimine viene compiuto tutti i giorni quando ci viene proposto di spostare online le iniziative, i dibattiti, gli incontri…
Non è artigianato, badate bene: è una modalità di vivere. Come Sensibili alle foglie abbiamo 500 autori, ai quali chiediamo di fare esattamente quel che faccio io; abbiamo libri che hanno superato le 10.000 copie vendute senza passare per nessuna pubblicità. Questo ci consente di andare avanti, di costruire dei passi, di acquisire nuove conoscenze. Non c’è qualcuno che finanzia la ricerca, eppure sono vent’anni che faccio ricerca, con i cantieri sociali, e la pubblico: non c’è nessuna istituzione che la sostiene. Ecco cosa intendo con ‘autogestione’. Non una formula. Siamo in un ambiente dove la parola ‘autogestione’ ha una lunghissima storia, non mi sarei mai permesso di usarla dandogli una forma: porto un’esperienza, e mi sembra che riflettere su un’esperienza sia una cosa importante.
Come si promuove questo incontro? Quando io faccio un incontro a Roma, lo promuovo mandando personalmente un’infinità di messaggi a tutta una serie di persone che sono in relazione con il nostro lavoro, che a loro volta, se hanno il piacere di farlo, e se ritengono di volerlo fare, possono parlarne ad altri. Come girano i nostri libri? Io li porto qui, poi se interessa a qualcuno di voi, ne parlerà a qualcuno; può darsi che da ciò venga fuori un’altra persona che acquista il libro, e via di seguito. Qual è il dispositivo relazionale? Il centro non è l’email che mandi, ma il sistema delle relazioni che costruisci; e se lo metti veramente al centro, significa che metti il corpo prima della persona cibernetica, poni la persona al primo posto. Fai l’operazione rovesciata rispetto alla NSA.
Se lo facciamo tutti, costruiremo grandi reti di ricchezza sociale che possono aiutarci a capire molto meglio cosa vuol dire andare oltre il capitalismo, e non solamente fare una lotta anti-capitalistica. Oggi bisogna fare un’altra cosa, non essere contro qualcuno, perché serve a nulla. Bisogna proprio dirgli: non mi interessi. Mi interessa una cosa più ricca, più ampia, più gratificante, più profonda, più proiettata in un futuro, che è il futuro della nostra specie, perché quello che ci propone questo sistema è soffocare, finire lì dentro e poi in una prigione senza via d’uscita, una prigione che tu stesso contribuisci a chiudere.
Una cosa importante, che vorrei non venisse travisata: non dico che non bisogna usare quel che c’è nel mondo. C’è, bisogna capirlo e utilizzarlo con giudizio. Lo sforzo creativo che dobbiamo fare è intraprendere un percorso diverso, che porta anche a un immaginario tecnologico diverso. Io penso che sia possibile, non è un’utopia. Io sono estremamente centrato sul presente. Il futuro lo concepisco solo come progettualità di un presente che è in atto, legato a una pratica che è in corso. Una pratica che immagina, istituisce un futuro, non singolare, ma relazionale. Perché le strade che si possono aprire si moltiplicano, si allargano, si arricchiscono mano a mano che la tua rete di relazioni si intensifica e si arricchisce, si sperimenta, si conosce e quindi riflette su se stessa e su quale sia il futuro migliore per sé. Il ‘per sé’ che una volta era una vecchia discussione teorica – la classe in sé e la classe per sé – oggi lo dobbiamo pensare non nel quadro della riflessione di Lukács di tanti anni fa – molto interessante e grande letteratura di una storia passata – ma come un ‘per sé’ quotidiano. Quel che faccio, che mi porta più in là su questo terreno che è oltre il capitalismo, è già oltre il capitalismo. A modo suo, come può esserlo, come la borghesia poteva esserlo dentro l’aristocrazia. È un immaginario che dobbiamo costruire insieme, attraverso la priorità delle relazioni. Di tutto il resto, si tratta solo di prendere atto che c’è, e cercare di evitare che ci distrugga.
1) Cfr. analisi di Giovanna Cracco, pag. 6, Capitalismo e ambientalismo. La transizione (non) ecologica