Maria Rita Prette*
Il punto di svolta del 1991: produzione di un conflitto permanente e non dichiarato, tecnologia militare e stato di propaganda: siamo in guerra da trent’anni
Credo sia molto importante parlare della guerra, una parola diventata un po’ tabù: nel senso che come Paese sono una trentina d’anni che facciamo guerre, anche se non le dichiariamo più e le chiamiamo con altri nomi. A ben vedere, quando ho fatto questo lavoro, anch’io ho faticato a chiamare ‘guerra’ le cose che ho incontrato, perché hanno un carattere sleale e feroce che va ben oltre il modo in cui i conflitti sono stati concepiti dall’umanità fino al 1991. Dobbiamo quindi guardare queste nuove forme delle guerre per come si esprimono, per come vengono fatte, per i dispositivi che attuano, a partire dal momento in cui hanno cominciato a essere realizzate in queste modalità, ossia: non più due eserciti che si confrontano.
Forse la seconda guerra mondiale è stato il conflitto ‘di passaggio’ verso questo nuovo modo, caratterizzato soprattutto dall’utilizzo dell’aviazione; ormai ci siamo abituati al fatto che si bombardino delle città, dei quartieri, dei Paesi, che li si rada anche al suolo. Penso che dovremo rifletterci, perché bombardare una città e raderla al suolo – come hanno fatto gli americani a Dresda nel 1945 e come abbiamo fatto noi in tutti Paesi in cui siamo stati, dalla Somalia all’Afghanistan, alla Libia, alla Siria – vuol dire colpire dei civili. Questo è il primo tabù che viene rotto dalle nuove forme della guerra: a morire sono principalmente i civili, molto meno i soldati.
Chiarisco subito che quando parlo dell’Italia, citando quello che i nostri eserciti hanno fatto nel mondo in questi trent’anni, mi riferisco allo stesso modo alla Nato e agli Stati Uniti, perché noi non siamo un’entità militare, uno Stato con un esercito dotato di sovranità: ospitiamo sul nostro suolo sette basi Nato, fondamentali per gli USA rispetto all’Europa dell’Est e all’Africa; queste sette basi sono accompagnate da altre 54 esclusivamente americane, e da un certo numero di basi miste, un po’ italiane, un po’ americane e un po’ Nato. Quindi siamo a tutti gli effetti una colonia statunitense. Dal 1945 a oggi, ciò che abbiamo fatto a livello militare dipende principalmente da questo punto. O per meglio dire, ci sono due binari attraverso i quali il nostro Stato, in nostro nome, fa delle guerre.
Il primo è la sudditanza che abbiamo appena visto. Ha origine nel 1949 con il Trattato della Nato e nel 1954 con il Trattato bilaterale Italia-Stati Uniti, che ha consentito di mantenere qui le basi militari.
Il secondo binario è quello esplicitamente definito nel 1991 in un Rapporto dal nostro Ministero della Difesa: la guerra fredda è finita, spiega il Ministero, e quindi la nostra funzione anticomunista rispetto all’Europa dell’Est; ora dobbiamo garantirci l’approvvigionamento delle materie prime e delle fonti energetiche, garantire militarmente le vie attraverso le quali queste fonti ci arrivano, e garantire anche le imprese italiane che operano nei Paesi dove sono situate le risorse – quei territori che loro definiscono ‘contesi’ e che noi abbiamo invece visto essere territori massacrati dalle guerre, e dalle seguenti ricostruzioni che sono la fortuna di tanti industriali italiani.
I due binari camminano intrecciati, e questo spiega perché tante volte dimentichiamo. Ora si dice che quella in Ucraina è la prima guerra in cui l’Europa si trova coinvolta dopo settant’anni di pace: non è chiaramente così. Nel 1999 i militari italiani sono andati a bombardare Belgrado, che è nel cuore dell’Europa, e l’hanno fatto senza minimamente concepirsi come se stessero facendo una guerra. Eppure siamo andati lì e abbiamo bombardato, e con le nostre armi potenziate con l’uranio impoverito abbiamo reso inaccessibili per i prossimi 4 miliardi e mezzo di anni intere zone della Serbia, come abbiamo fatto poi in Iraq, Libia, Afghanistan e in tutti i posti dove siamo andati – l’uranio impoverito meriterebbe una serata a parte e su questo non mi dilungo.
Io credo che il punto centrale di questa situazione sia che non vogliamo parlare di guerra perché, in realtà, con le nostre armate militari commettiamo una serie di crimini che sono veri e propri crimini contro l’umanità…
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Incontro-dibattito sul libro La guerra che fingiamo non ci sia di Maria Rita Prette (Sensibili alle foglie, 2018), presso il Leoncavallo Spazio Pubblico Autogestito, Milano, 6 novembre 2022