Guido La Barbera*
Brzezinski e Kissinger sull’Ucraina. A partire da La grande scacchiera, due politiche estere a confronto nella gestione degli interessi vitali delle potenze: Stati Uniti, Russia e Cina
“Ma, Zbig, quante volte puoi mettere uno stecco nell’occhio alla Russia, senza che reagisca? Noi abbiamo preso l’abitudine, negli anni della debolezza russa sotto Eltsin, di mettergli le dita negli occhi un sacco di volte, facendola franca. Non sta finendo quel periodo? Non dobbiamo prenderli sul serio quando dicono «Questo è fondamentalmente contrario ai nostri interessi e resisteremo»?”
Così David Ignatius del Washington Post, terza voce in America and the World del 2008, libro intervista con Zbigniew Brzezinski e Brent Scowcroft, il primo consigliere per la sicurezza nazionale per Jimmy Carter, il secondo per George Bush e Gerald Ford, nonché consigliere militare di Richard Nixon. Da quella dialettica tra due decani della politica estera dell’imperialismo americano emergevano con nettezza due linee nei confronti dell’imperialismo russo e delle sue ambizioni a riprendere il controllo, nel “vicino estero”, dello storico dominio dell’impero zarista.
Brzezinski risolutamente a favore dell’inclusione dell’Ucraina nella NATO.
Scowcroft contrario, sulla falsariga delle obiezioni che erano anche di Henry Kissinger: i legami storici e identitari della Rus’ di Kiev col potere moscovita; la divisione dell’Ucraina tra un Ovest filo-occidentale e un Est russificato.
L’imperialismo europeo vi compariva solo sullo sfondo: Scowcroft a ricordare la contrarietà europea a un’azione così intrusiva nei confronti della Russia e a lamentare la confusa sovrapposizione tra l’ambito della Ue e quello della NATO; Brzezinski a impugnare il fatto che sulla questione ucraina gli europei erano “divisi”.
La linea Brzezinski aveva un lungo tracciato alle sue spalle. Il libro La grande scacchiera, del 1997, è il suo intervento più significativo negli anni Novanta; vi traspare l’intento d’influenzare la politica americana nel secondo mandato di Bill Clinton. Alla luce di quel testo, si può considerare Brzezinski come uno dei principali teorizzatori del momento unipolare dell’imperialismo americano, tesi trionfalista in voga negli anni Novanta in seguito al crollo dell’URSS nella cesura strategica del 1989-91.
Thierry de Montbrial, nell’annuario Ranises 2023 dell’IFRI, sostiene che La grande scacchiera ebbe un’influenza “immensa”. Vede inverata la linea Brzezinski negli orientamenti dell’amministrazione Biden e nella risultante della guerra d’Ucraina, là dove l’ex consigliere di Carter riprendeva l’impianto geopolitico di Halford Mackinder combinato con l’eccezionalismo americano. Gli Stati Uniti avrebbero confermato il ruolo di unica superpotenza e di impero universale basato sui valori di libertà, democrazia e progresso economico se avessero giocato sulla “scacchiera” del continente eurasiatico, impedendo che vi si affermassero una potenza o una coalizione egemone ostili. In quella visione, riassumiamo noi, nella falsa coscienza che identificava gli interessi americani con lo sviluppo globale nella democratizzazione – oggi si direbbe con l’ordine liberale – si trattava di tenere gli avversari divisi per tenere il mondo unito, appunto attorno ai valori che rivestivano l’egemonia americana.
In quel contesto, Brzezinski prospettava l’estensione della NATO e dell’Unione Europea verso Est, sino a contemplare l’inclusione dell’Ucraina; una Ue però “euroatlantica”, legata organicamente agli Stati Uniti e comunque, almeno nel tempo prevedibile di una generazione, limitata a un livello d’integrazione non in grado di impensierire Washington. La saldatura dell’Ucraina all’Occidente era la carta per condizionare Mosca. Senza l’Ucraina, la Russia non sarebbe stata più “un impero” e non avrebbe potuto isolare sotto il suo dominio le repubbliche del Caucaso e dell’Asia centrale. Attraverso l’Ucraina incardinata in un “Occidente allargato” o “grande Occidente”, Mosca sarebbe stata indotta ad agganciarsi al processo di democratizzazione occidentale.
Brzezinski alla superficie era critico con la storica ambivalenza americana nei confronti dell’integrazione politica europea; sosteneva che essa andava semmai sviluppata con un ruolo attivo degli Stati Uniti, riorganizzando la NATO su due pilastri dell’Alleanza Atlantica. Va trattenuto però che La grande scacchiera prospettava più un’integrazione transatlantica che una reciprocità, e comunque faceva intravedere un processo che avrebbe richiesto più di una generazione, mentre sarebbe proseguito l’allargamento a Est.
In questo senso era concepita e incoraggiata la relazione tra Unione Europea e Russia. Per un verso era una Ue incardinata nella relazione atlantica, per cui ogni sua espansione – in sostanza accompagnata o preceduta dall’allargamento della NATO – sarebbe stata un’espansione dell’influenza americana. Per l’altro verso, la Russia sarebbe stata depotenziata dall’adesione dell’Ucraina alla Ue e alla NATO, dunque ricondotta a un ruolo regionale, e non paritario, nella confluenza col grande Occidente allargato. In questo senso, allora, l’alleanza tra Europa e Russia non sarebbe stata la minaccia di una coalizione ostile in grado di controllare l’heartland – il cuore continentale dell’“isola mondiale” nell’immaginario geopolitico di Mackinder – ma l’esercizio della bilancia americana sullo scacchiere eurasiatico, a equilibrare la Cina sul fronte orientale dell’Eurasia.
Nel testo La grande scacchiera Brzezinski analizza le prospettive per la Russia valutando tre diverse “scuole di pensiero”, che considera tutte non confacenti ai reali rapporti di forza in cui si trovava Mosca: “La prima assegna una priorità a una ‘cooperazione strategica’ ormai matura con l’America, che per alcuni dei suoi sostenitori sta a significare di fatto un condominio mondiale; la seconda mette l’accento sull’importanza centrale dei ‘Paesi limitrofi’ [il vicino estero] della Russia, con alcuni che auspicano un’integrazione economica centrata su Mosca e altri che mirano al ripristino di un controllo imperiale, volto a rafforzare una potenza in grado di tener testa all’America e all’Europa; la terza punta a una controalleanza di una coalizione euroasiatica intesa a ridurre il predominio americano su questo continente”.
Secondo Brzezinski, la prima corrente era prevalente all’inizio degli anni Novanta, attorno alla filiera occidentalista dei primi governi della presidenza Eltsin; gli altri due orientamenti sono emersi subito dopo. Tutte e tre le tendenze si sono mostrate però “storicamente inadeguate”, perché basate “su una concezione alquanto fantasmagorica della potenza effettiva, così come delle prospettive e degli interessi internazionali della Russia”.
Seguiamo il filo della ricognizione di Brzezinski. A suo avviso, il retropensiero della prima corrente, pur occidentalista, era il miraggio di una nuova Yalta e il convincimento che sarebbe stata riconosciuta alla Russia una “parità con l’America”; “implicita in questa illusione l’idea che l’Europa centrale sarebbe rimasta, volente o nolente, una regione di fatto politicamente vicina alla Russia”. Lo scioglimento del Patto di Varsavia e del Comecon non avrebbe comportato una gravitazione dei loro ex aderenti verso la NATO o anche verso la Ue.
Brzezinski qui è critico con l’amministrazione Clinton, per aver incoraggiato queste correnti ed essere rimasta nell’ambiguità sullo status dell’Europa dell’Est. Nel libro sul processo di estensione della NATO di Mary E. Sarotte Not one inch (Non un solo pollice) – che inspiegabilmente non cita La grande scacchiera – si richiama una polemica del 1993, dove Brzezinski critica la formula ibrida della “Partnership for peace” offerta all’Est e sostiene risolutamente l’allargamento della NATO.
In questo contesto, per Brzezinski la discriminante dell’indipendenza dell’Ucraina vale anche verso le correnti filo-occidentali del primo Eltsin: “L’élite postsovietica russa si aspettava inoltre chiaramente che l’Occidente favorisse, o quantomeno non impedisse, il ripristino di un ruolo centrale della Russia nello spazio postsovietico, vedendo perciò di malocchio l’aiuto fornito ai nuovi Stati indipendenti per consolidare la loro autonomia”.
In quella prospettiva, l’Ucraina “assumeva un’importanza decisiva”: “la crescente propensione degli Stati Uniti ad assegnare un’alta priorità ai rapporti con questo Paese e ad aiutarlo a difendere la sua nuova indipendenza veniva vista da molti a Mosca – filo-occidentali compresi – come una politica contraria all’interesse vitale della Russia a reintegrare col tempo l’Ucraina nel suo campo: un obiettivo che rimane ancora un articolo di fede per molti esponenti dell’élite politica russa. La tendenza storica e geopolitica della Russia a rimettere in discussione il separatismo dell’Ucraina entrava così in urto con la concezione americana secondo la quale una Russia imperiale non poteva essere democratica”.
In conclusione, “i democratici filo-occidentali volevano semplicemente troppo e potevano dare poco”: “auspicavano una cooperazione – o piuttosto un condominio – con l’America su un piano di parità, mano relativamente libera all’interno della CSI e un cuscinetto geopolitico neutrale nell’Europa centrale. Ma la loro ambivalenza verso il passato sovietico, la mancanza di realismo riguardo ai nuovi equilibri di potenza nel mondo, la profondità della crisi economica e l’assenza di un ampio consenso sociale hanno impedito loro di fare della Russia un Paese stabile e realmente democratico, come richiedeva il concetto di cooperazione paritaria”.
Attenzione: De Montbrial aggiunge che verso la fine della sua vita, rendendosi conto dei rischi di un’esportazione della democrazia per via forzosa – le iniziative della filiera neocon che nel 2003 spingerà per la guerra per scelta in Iraq – Brzezinski opterà per la formula di una “finlandizzazione” dell’Ucraina. In questo ripensamento c’è l’indizio di una prima risultante non voluta della dottrina Brzezinski. Questo mutamento d’avviso spiega perché Brzezinski e Kissinger, che sull’adesione dell’Ucraina alla NATO avevano posizioni opposte, alla fine nella crisi del 2014 convergono sulla finlandizzazione.
Pensiamo tuttavia che la convergenza tra i due su quella formula, riecheggiata negli accordi di Minsk, sia un ritrovarsi tattico, non strategico o concettuale. Siamo nel 2014, allo scoppio delle ostilità sul Donbass e sulla Crimea: Brzezinski vuole evitare probabilmente che precipiti il conflitto militare con la Russia, ma il suo convincimento che l’Ucraina andasse sottratta in modo permanente a Mosca e che andasse con ciò impedita un’Unione eurasiatica che la comprendesse, resta inalterato.
La vicenda illustra bene l’uso differente che Brzezinski e Kissinger fanno delle nozioni di bilancia di potenza e interessi vitali.
Brzezinski riconosce i rapporti di forza della bilancia e gli interessi vitali delle potenze, ma ritiene di poterli manipolare e indirizzare, sia nelle relazioni tra le potenze sia all’interno delle potenze stesse, influenzandone i processi politici che con lo sviluppo hanno almeno la potenzialità di inclinare verso libertà e democrazia: è la visione del “grande risveglio” che, a partire dalla Rivoluzione francese nel 1789, sotto l’impulso dello sviluppo economico avrebbe via via spinto le masse alla coscienza politica e sociale. Per Brzezinski la Russia ha sì l’interesse vitale all’Ucraina, ma deve essere forzata a rinunciarvi. Allo scopo, ipotizza un triplice aggiramento strategico: a Ovest, legando appunto Kiev alla Ue e all’Alleanza Atlantica; in Asia centrale, che immagina legata coi gasdotti all’Occidente e islamizzata, oltre che sotto influenza della Turchia; e in Asia orientale, dove accanto all’alleanza col Giappone, con Tokyo in posizione dipendente, sostiene la convergenza strategica con la Cina. Mosca sarebbe stata costretta così a scegliere come unica opzione la democratizzazione, nella rinuncia al dominio imperiale e nell’appartenenza – subordinata – all’Occidente allargato imperniato sul legame transatlantico.
Kissinger parte dalla medesima ricognizione degli interessi vitali delle altre potenze, in questo caso la Russia, però in qualche modo per riconoscerli, e su quella base trattare una composizione, in un concerto di potenze vestfaliano, dove non è contemplata o è limitata l’ingerenza negli affari interni di un’altra potenza. Anche Kissinger pensa a una Russia legata all’Occidente, ma sulla base del riconoscimento dei suoi interessi di potenza. Infatti negli anni Settanta, quando Washington tratta con l’URSS per cercare un equilibrio sulle armi strategiche, Nixon e Kissinger sono accusati di acquiescenza nei confronti di Mosca; le trattative sono ostacolate nel Congresso dalle correnti, sia democratiche che repubblicane, che sostenevano che l’URSS andasse incalzata di più, impugnando anche l’arma dei diritti umani. Con la presidenza Carter, di cui Brzezinski è consigliere per la sicurezza nazionale, verrà adottata questa linea più intrusiva; i due orientamenti, ispirati da Brzezinski e da Kissinger, possono essere visti come i due tracciati dei soggettivisti e degli oggettivisti della bilancia di potenza.
A ben vedere, i due approcci, visti alla distanza di mezzo secolo, riflettono non solo due culture politiche – Brzezinski un realismo compenetrato con l’eccezionalismo americano; Kissinger una realpolitik di stampo europeo, che infatti si ispira a Metternich e Bismarck – ma anche due prospettive di bilancia. Kissinger, assieme a Nixon, con il quale Brzezinski polemizza nel 1972 tacciando di “illusione” la sua nozione di equilibrio pentapolare, pensa a un equilibrio multipolare, nozione che farà evolvere nei decenni, nell’ipotesi di un esapolarismo negli anni Novanta e di equilibrio tra grandi aree regionali nel suo testo conclusivo, Ordine mondiale.
Brzezinski pensa alla preminenza di un Occidente allargato che, giocando sulla pluralità di potenze sul continente eurasiatico, si dà il tempo per conformare l’intero sistema globale ai valori liberali incarnati dall’egemonia americana. Ciò non toglie che sul finire degli anni Dieci del nuovo secolo, di fronte alla necessità di bilanciare una Cina che si avvicina a eguagliare la potenza americana e in prospettiva l’intero Occidente, quanto all’equilibrio di potenza e alla relazione con Pechino le due prospettive di Brzezinski e Kissinger tenderanno a sovrapporsi.
Forse però la distinzione più importante è proprio la differente relazione dei due con la cultura politica americana. Brzezinskzi, per il fatto di mettere il suo realismo al servizio di una concezione wilsoniana, è più aderente a quella cultura eccezionalista, e il corso degli eventi nei decenni è più aderente alle sue analisi. In questo senso, si può pensare, De Montbrial parla di “influenza immensa” del suo libro. Questo, attenzione, nel bene e nel male del procedere della politica estera americana, nei suoi successi e nei suoi scacchi. L’Afghanistan diventerà davvero il Vietnam dell’URSS, come Brzezinski aveva preconizzato nel 1980, ma ne scaturiranno il terrorismo islamico e l’11 settembre; l’Ucraina davvero è stata staccata dall’Unione eurasiatica di Mosca e avviata verso la Ue e la NATO, ma al prezzo di una guerra che lascerà le sue conseguenze per decenni. Qui la Russia per ora si muove in senso opposto a quello ipotizzato da Brzezinskzi, che la voleva costretta a democratizzarsi e ad accordarsi con l’Occidente euroatlantico.
Parafrasando il titolo del romanzo di Graham Greene Un americano tranquillo (The quiet american), sul disastro dei tentativi manipolatori degli USA in Vietnam, vera via per l’inferno sulla strada lastricata dall’ipocrisia delle buone intenzioni, in una certa misura Brzezinski è un geopolitico tranquillo. Resta vero che per quella sua via alcuni obiettivi strategici americani al dunque vengono conseguiti: l’URSS crolla anche per essere rimasta impigliata nel ginepraio afghano; una convergenza tra Germania e Russia o tra Ue e Russia che sia ostile agli USA sarà ora impedita per un lungo lasso di tempo.
Dal canto suo, Kissinger per il suo realismo d’impronta europea non avrà mai risolto il rebus di una condotta realista della politica americana che si saldi col sentire di massa in quelle psicologie sociali; ma anche col fattore morale delle stesse élite politiche. Per tutta la vita condurrà un tentativo pedagogico nei confronti di quella cultura politica, segnalando i rischi per l’America del suo oscillare tra lo spirito missionario wilsoniano – anima dell’internazionalismo liberale delle élite politiche della Costa Est – e l’isolazionismo jeffersoniano o jacksoniano della pancia continentale e del Sud degli States. Vi combinerà una pratica di ‘consigliere del principe’ della presidenza di turno, cercando di influenzarla anche accompagnandone in una certa misura decisioni in contraddizione con la sua visione: un esempio per tutti: la guerra per scelta ingaggiata nel 2003 in Iraq da George W. Bush e dai suoi consiglieri neoconservatori. Su un aspetto decisivo questa tattica ha avuto successo, la svolta nella bilancia globale attuata nel 1971 con Nixon sulla Cina; per molti altri frangenti Kissinger rimarrà invece una Cassandra della Realpolit. Si pensi proprio all’attuale guerra d’Ucraina, il cui contesto era stato previsto da Kissinger alla lettera, appunto partendo dalla comprensione dell’interesse vitale della Russia.
La seconda opzione considerata da Brzezinski per la Russia dei tardi anni Novanta era la priorità al “vicino estero”. È quella che si affermerà con Vladimir Putin, notiamo; secondo Brzezinski questa corrente si oppone a quella filo-occidentale sostenendo che la cooperazione con gli Stati Uniti aveva trascurato la priorità del rapporto con le repubbliche dell’ex URSS: “L’obiettivo era insomma quello di ricostruire, entro lo spazio geopolitico dell’ex URSS, un sistema di rapporti imperniato su Mosca come centro decisionale”. All’interno di questa tendenza confluivano differenti scuole di pensiero. “Funzionalisti” e “deterministi economici” erano convinti che la CSI, la labile Comunità degli Stati Indipendenti subentrata all’URSS, “avrebbe potuto diventare l’equivalente di una Ue guidata da Mosca”. Altre correnti vedevano nell’integrazione economica “solamente uno dei vari strumenti per ripristinare il dominio imperiale”, accanto all’influenza politico-militare. La componente dell’“eurasianesimo” sosteneva una “missione storica permanente della Russia” nello spazio dell’ex URSS.
Si può ritrovare in questa ricognizione una tassonomia delle correnti che oggi si raccolgono attorno a Putin. Secondo Brzezinski gli orientamenti funzionali o economicisti combinavano un “determinismo economico oggettivo” a una forte dose di “volontà imperiale soggettiva”, ma non davano una risposta esauriente su cosa fosse la Russia e quale la sua “missione”: “La dottrina sempre più seducente dell’euroasianesimo, col suo accento sui ‘Paesi vicini’, cercava di riempire proprio questo vuoto. Il punto di partenza di questo orientamento, definito in termini piuttosto culturali se non mistici, era la premessa che la Russia, dal punto di vista geopolitico e culturale, non è interamente europea né interamente asiatica, e che, pertanto, possiede una propria identità euroasiatica distinta. Quest’identità è il retaggio della sua peculiare capacità di controllo sull’enorme massa continentale racchiusa tra l’Europa centrale e le sponde dell’Oceano Pacifico, ovvero l’eredità della grandezza imperiale che Mosca ha conquistato in quattro secoli di espansione a Est, assimilando un’ampia popolazione non russa e non europea che ha conferito alla Russia la sua singolare personalità politica e culturale, euroasiatica”. Una versione “più sobria” delle teorie eurasiatiste, sempre per Brzezinskzi, era alla base delle iniziative fautrici di una Unione economica eurasiatica.
Anche questa seconda opzione per Brzezinski è un’“illusione geopolitica”: “L’inadeguatezza geopolitica dell’opzione per i ‘Paesi vicini’ consisteva in definitiva nel fatto che la Russia non era abbastanza forte politicamente per imporre la propria volontà, né abbastanza attraente dal punto di vista economico per esercitare una seduzione sui nuovi Stati indipendenti”.
Infine, la terza opzione che era ventilata dalle correnti russe era un’alleanza alternativa da parte di Mosca con Pechino e Teheran. Anche questa prospettiva, notiamo, fa parte delle opzioni politiche odierne nel dibattito russo; per Brzezinski restava improbabile: sarebbe stata possibile solo se la “miopia” di Washington avesse portato gli Stati Uniti simultaneamente in urto sia con la Cina che con l’Iran; soprattutto, Mosca avrebbe dovuto accettare un’alleanza in cui Pechino sarebbe stata la forza predominante.
Come risultante dell’inadeguatezza di tutte e tre le opzioni per la Russia – quella filo-occidentale che pretendeva una relazione paritaria con gli Stati Uniti, quella euroasiatista che puntava a restaurare il controllo sull’ex URSS, quella asiatista che considerava un’alleanza con la Cina – Brzezinski riteneva appunto che Washington dovesse operare per rendere obbligata la cooperazione di una Russia democratizzata, e non più “imperiale”, con una “Europa transatlantica” e con gli USA; un’Ucraina incardinata in Occidente diventava il perno dell’intera manovra sulla “scacchiera” geopolitica.
De Montbrial nota che all’epoca la Cina non era ancora vista come una minaccia; infatti, aggiungiamo, Brzezinski sosteneva un’alleanza di fatto tra gli Stati Uniti e una “Grande Cina” potenza regionale. Di recente Walter Russell Mead ha ripreso sul Wall Street Journal suggestioni geopolitiche affini a quelle di Brzezinski in La grande scacchiera, sostenendo però che il gioco di bilancia degli USA, potenza marittima di fronte alla massa dell’Eurasia, avrebbe potuto essere sostenuto con successo dall’America assieme agli alleati europei e asiatici anche contro una coalizione tra Cina e Russia. Invece per Brzezinski quello sarebbe stato lo scenario più pericoloso, in un quadro di tre possibili coalizioni regionali in contrasto con l’interesse americano.
La prima era appunto un’alleanza tra Cina e Russia, forse estesa all’Iran e a guida cinese: “Al fine di scongiurare tale eventualità, gli Stati Uniti dovranno dar prova di tutta la loro abilità geostrategica contemporaneamente sui perimetri occidentale, orientale e meridionale dell’Eurasia”.
La seconda combinazione sfavorevole agli Stati Uniti sarebbe stata un asse tra Cina e Giappone, considerato però “non troppo plausibile”, dato il tracciato storico del conflitto bellico tra le due potenze, e comunque facilmente scongiurabile dagli USA.
La terza combinazione ostile poteva essere un grande riallineamento europeo alla Russia, attraverso una “collusione russo-tedesca” o un’“intesa franco-russa”. È da notare che per Brzezinski l’ipotesi, remota, poteva verificarsi qualora l’unificazione europea avesse segnato “una battuta d’arresto” e le relazioni tra Europa e America si fossero seriamente deteriorate: “In quest’ultimo caso, è possibile immaginare un accordo Russia-Europa per escludere l’America dal continente”. Ipotesi improbabile, che avrebbe richiesto errori grossolani nella politica europea dell’America e una “svolta imponente” da parte dei principali Stati europei. Avvertiamo un’eco di questa terza tesi, così confidente sull’influenza americana in Europa, nel documento della primavera 2021 pubblicato da Center for American Progress – istituto legato all’ambito di Hillary Clinton attraverso John Podesta – dove si sosteneva che Washington avrebbe dovuto incoraggiare una difesa europea anziché frenarla, perché gli USA sarebbero stati comunque in grado di bloccarne una declinazione anti-americana.
Si può dire che nel Brzezinski de La grande scacchiera c’è una sottovalutazione delle prospettive dell’ascesa cinese? Sì e no. Per un verso è vero che la prospettiva è l’emergere della Cina solo come potenza regionale e non ancora globale, e che l’ipotesi è la sua cooptazione nell’ordine occidentale. Ma va evitato l’anacronismo: siamo nel 1997 e il libro in più occasioni si pone nella prospettiva di una generazione.
È vero che la questione dominante non è la Cina, ma è l’accerchiamento della Russia, da Ovest, da Est e da Sud, per impedirne il risorgere come potenza imperiale. Alla luce della guerra del 2003 e della crisi del 2008, si può semmai osservare che le basi dell’egemonia americana, che Brzezinski considera incontrastate, saranno erose prima del previsto col procedere del declino relativo americano.
È vero, infine, che a consuntivo le proporzioni assunte dall’ascesa della Cina e l’andamento della crisi ucraina, che sta spingendo Mosca verso Pechino, mostrano proprio nella realizzazione del disegno di Brzezinski sull’Ucraina l’avvicinarsi di una grande risultante non voluta. Forse nel deflagrare della guerra, come fa pensare la sua conversione del 2014 alla finlandizzazione. Certamente nella spinta alla convergenza tra Russia e Cina, che Brzezinski considerava la minaccia strategica maggiore.
Messa in condizione obbligata, la reazione della Russia è stata in direzione opposta a quanto si proponeva la manipolazione di Brzezinski. In questo senso ha avuto due volte ragione la Cassandra Kissinger, quando ammoniva nel 2014 che non si dovevano mettere i russi con le spalle al muro, nella condizione di dover dimostrare ciò di cui erano capaci. E quando si domanda oggi se la guerra d’Ucraina non rischi di fare della Russia una propaggine dell’Asia di fronte all’Europa e all’Occidente. I fatti si sono svolti secondo l’indirizzo preconizzato da Brzezinskzi; le correlazioni tra quei fatti nelle loro risultanti non volute hanno confermato le riserve di Kissinger. L’impronta di entrambe le scuole di pensiero s’intravede nell’ambivalenza dell’amministrazione Biden.
Si può avvertire una sorte di desolata ammissione d’impotenza nelle tesi di De Montbrial per “Ramses”, là dove constata che nella guerra d’Ucraina per gli europei è stato impossibile sottrarsi alle pressioni di Washington, senza però che sia chiaro il senso di direzione degli Stati Uniti. Del resto, il parallelogramma delle forze non solo è complicato dai molti centri di potenza del multipolarismo, ma è anche in rapido mutamento sotto la spinta dello sviluppo ineguale.
L’imperialismo americano ha sempre riluttato all’unità europea e tanto più a un’alleanza esclusiva tra Europa e Russia, ma l’irruzione dell’imperialismo cinese cambia l’equazione globale di potenza e fa di Pechino il vero rivale strategico.
L’imperialismo europeo non ha avuto altra scelta che assecondare il momento atlantico generato dalla guerra e imperniato sul tropismo filo-USA di Polonia e Stati del Baltico, ma resta in sospeso una linea dell’Europa renana che nei confronti della Russia e soprattutto della Cina trovi lo spazio per un’autonomia strategica del Vecchio Continente.
L’imperialismo russo ha creduto che il movimento delle placche tettoniche globali impresso dalla Cina creasse le condizioni per una rapida incursione in Ucraina, ma la lunga guerra di logoramento che ne è scaturita sembra mettere allo scoperto la sua debolezza di fondo.
Il nazionalismo ucraino si è diviso, tra l’area occidentale, che ha cercato l’integrazione nell’imperialismo europeo e nel legame atlantico, e quella orientale, che si è rivolta all’imperialismo russo.
L’imperialismo cinese rafforza la presa dei suoi poteri in vista di un “decennio decisivo” nella contesa globale, come si è visto col 20° Congresso del PCC e il terzo mandato per Xi Jinping, ma la sortita russa ha accelerato in modo imprevisto e indesiderato i tempi della crisi dell’ordine.
Lo sviluppo ineguale rende impossibile mantenere un ordine stabile; prima o poi la guerra verifica i nuovi rapporti di forza. Com’è stato scritto per il conflitto mondiale del 1914, è facile che i vertici delle potenze in lotta vi arrivino come “sonnambuli”.
*Articolo pubblicato su Lotta comunista, n. 626, ottobre 2022