Parrique T., Barth J., Briens F., C. Kerschner, Kraus-Polk A., Kuokkanen A., Spangenberg J.H.*
Transizione ecologica e sviluppo sostenibile. Il decouplink (disaccoppiamento) tra crescita economica e pressioni ambientali non può avvenire. Dopo aver analizzato studi e pratiche, la conclusione del Report di European Environmental Bureau è tranchant: dobbiamo parlare di decrescita
Qui la seconda parte del Report
Sezione tre. È probabile che il decouplink si verifichi?
Alla ricerca di prove, abbiamo scoperto che il tipo di disaccoppiamento che sarebbe necessario per mitigare in modo efficace ed equo il cambiamento climatico e affrontare altre crisi ambientali, non si vede da nessuna parte. Tuttavia, la mancanza di supporto empirico non è sufficiente per respingere completamente la possibilità di decouplink, che alcuni sostengono potrebbe benissimo verificarsi in futuro con il giusto insieme di cambiamenti politici. Lo scopo di questa sezione è valutare la validità di questa posizione. La nostra affermazione è la seguente: è estremamente improbabile che un disaccoppiamento adeguato (cioè assoluto, permanente e sufficiente) avvenga nel prossimo futuro. Offriamo sette ragioni a difesa di tale proposta: (1) aumento della spesa energetica, (2) effetti di rimbalzo, (3) spostamento del problema, (4) impatto sottovalutato dei servizi, (5) potenziale limitato del riciclaggio, (6) cambiamento tecnologico insufficiente e inappropriato e (7) spostamento dei costi. In quanto segue, esaminiamo ciascuno di questi motivi.
5. Potenziale limitato del riciclaggio
Il riciclaggio è una strategia comunemente sostenuta per il decouplink, spesso associato alla visione di un’economia circolare. L’idea è che il disaccoppiamento delle risorse potrebbe essere possibile se tutti i materiali necessari per la produzione di nuovi prodotti venissero estratti non dalla natura, ma dai vecchi prodotti divenuti rifiuti. Il tradizionale processo lineare di produzione verrebbe poi trasformato in un’economia “a circuito chiuso”, a “zero sprechi”, “dalla culla alla culla”. Naturalmente, chiudere il cerchio tra rifiuti ed estrazione attraverso il riciclaggio è un obiettivo sensato e, in teoria, si vorrebbe che qualsiasi economia fosse il più circolare possibile. Quello che sosteniamo è che ci sono limiti a questa circolarità, e che in un’economia in rapida crescita questi limiti vengono raggiunti rapidamente.
Il riciclaggio stesso richiede nuovi materiali ed energia
Le macchine a moto perpetuo non esistono nella realtà. Anche se ci si possono aspettare guadagni significativi da un migliore riciclaggio, lo stesso processo di riciclaggio richiede energia e, il più delle volte, nuovi materiali; i quali a un certo punto dovrebbero essere anch’essi riciclati, richiedendo l’utilizzo di risorse aggiuntive, così via all’infinito (Georgescu-Roegen, per esempio, parlava di “regresso infinito”). Ciò significa che a causa di leggi ineludibili della natura (in questo caso la legge dell’entropia), i tassi di riciclaggio tecnicamente fattibili sono sempre al di sotto di quelli teoricamente possibili. Inoltre, le tariffe economicamente giustificabili sono spesso significativamente inferiori a quanto è tecnicamente possibile, poiché il costo marginale tende ad aumentare quanto più un processo si avvicina al suo massimo teorico (Motivo 1).
In aggiunta, poiché i materiali inevitabilmente si degradano nel tempo (seconda legge dell’entropia), possono essere riciclati negli stessi prodotti solo per un numero limitato di volte, prima di dover essere utilizzati per produrre altre merci con requisiti di qualità inferiore. In altre parole, prima o poi qualsiasi riciclo è necessariamente downcycling. Per esempio, le bottiglie di plastica possono essere riciclate in fibre di plastica per l’abbigliamento, ma non di nuovo in bottiglie di plastica, e possono infine finire nei muri di protezione dal rumore lungo le autostrade. Le fibre di cellulosa di carta possono sopportare solo da 3 a 6 cicli, per i quali devono essere mescolate con nuove fibre, e solo fino a quando non diventano troppo fragili per essere utilizzate per la carta; dopo passano al cartone, successivamente posso essere usate come isolamento abitativo e infine come biocarburante. Proprio come per l’energia, questo logoramento dei materiali pone limiti assoluti a quanto qualsiasi economia possa essere circolare.
Giampietro (2019) propone un altro modo di pensarla. In un certo senso, la natura ricicla già tutti i materiali gratuitamente, anche se troppo lentamente per gli attuali tassi di estrazione. Sostenere che i materiali e l’energia saranno quindi riciclati all’interno dell’economia, e non al di fuori di essa, ha un prezzo in termini di energia. Come sempre, la produzione richiede manodopera, strumenti ed energia, tranne che questa volta ciò che viene prodotto sono servizi di riciclaggio. In altre parole, il riciclaggio è un utilizzo di energia e materiali primari per riciclare i rifiuti, cioè energia e materiali secondari. In un mondo in cui l’economia è relativamente piccola rispetto al suo ambiente, e dove i flussi di energia e materiali primari sono maggiori dei flussi secondari, un’economia può essere circolare. Ma quando la scala della seconda coincide con quella della prima, la circolarità è compromessa. Come dice l’autore: “Ciò che conta davvero in relazione al potenziale del riciclaggio è la dimensione dei flussi di input richiesti e dei flussi di rifiuti generati dall’economia (tecnosfera), rispetto alla dimensione delle fonti primarie e dei pozzi primari messi a disposizione dai processi ecologici (biosfera)”. Se crescita economica significa un aumento delle dimensioni dell’economia rispetto al suo ambiente, significa che le economie in crescita raggiungeranno prima o poi i limiti della circolarità.
I tassi di riciclaggio sono lontani dal 100%
Naturalmente, si può sostenere che questa argomentazione relativa all’entropia è irrilevante in una situazione in cui i tassi di riciclaggio sono bassi, e che il semplice aumento di tali tassi per adeguarli al ritmo di aumento dell’uso delle risorse sarà sufficiente per ottenere il disaccoppiamento assoluto. Ma ecco una considerazione pratica: quanto è probabile che i tassi di riciclaggio aumentino così tanto?
Assumiamo innanzitutto che il riciclaggio non richieda energia extra e che tutti i materiali possano essere riciclati perfettamente. Nel 2005 sono stati lavorati 62 Gt/anno di materiali, generando 41 Gt di output (19 Gt di biomassa per mangimi, alimenti e foraggi, 12 Gt di combustibili fossili, 4,5 Gt di minerali estratti). Allo stesso tempo, solo 4Gt di materiali sono stati riciclati. Ciò non sorprende, dal momento che alcuni materiali attualmente utilizzati non possono essere riciclati, come i combustibili fossili e le biomasse bruciate per produrre energia (1). Un quinto delle risorse totali utilizzate nel mondo sono combustibili fossili e quasi la metà sono vettori energetici. Il 98% dei combustibili fossili che vengono bruciati come fonte di energia insieme alla biomassa consumata per mangimi, alimenti e foraggi non può essere riutilizzato o riciclato. Certo, passare a una fornitura di energia rinnovabile al 100% risolverebbe questo problema (anche se forse a costo di crearne altri, Motivo 2), ma siamo ancora lontani da questa situazione.
Un altro problema è che molti prodotti moderni sono troppo complessi per essere riciclati. La miniaturizzazione può far risparmiare materiale ma rende più difficile il recupero dei materiali stessi – e quando è tecnicamente fattibile (e non è sempre il caso), è più costoso e quindi meno interessante dal punto di vista economico. Reuter et al. (2018) studiano la riciclabilità di uno degli smartphone più modulari (Fairphone 2) e scoprono che il miglior scenario di riciclaggio possibile recupererebbe solo il 30% circa dei materiali. Più importante e problematico, questo è anche il caso della tecnologia per raccogliere e immagazzinare energia rinnovabile. UNEP (2011) ha stimato che meno dell’1% dei metalli speciali viene riciclato.
Un terzo punto è che i miglioramenti nel riciclaggio sono spesso più che annullati dall’aumento dei tassi di sostituzione (a volte alimentati dall’obsolescenza programmata). Infatti, se i tassi di riciclaggio aumentano a un ritmo più lento rispetto alla riduzione della vita media dei prodotti (cioè il tasso di sostituzione dei prodotti), l’uso delle risorse è destinato ad aumentare. Se la capacità di riciclare è più lenta della volontà di produrre, allora bisognerà utilizzare risorse vergini.
Non ci sono abbastanza rifiuti da riciclare
Quest’ultimo argomento è una questione di aritmetica di base. Solo per ora, assumiamo ancora che i tassi di riciclaggio aumenterebbero significativamente più velocemente rispetto alle loro tendenze attuali (pur mantenendo l’ipotesi che il riciclaggio di per sé richieda energia e nuovi materiali). Eppure, anche questo di per sé non sarebbe una garanzia per mantenere la produttività dell’economia in crescita, poiché in un’economia con un uso crescente delle risorse, la quantità di materiale utilizzato che può essere riciclato sarà sempre inferiore al materiale necessario per la crescita. Poiché l’economia continua a espandersi, saranno necessari più materiali di quelli disponibili nei periodi precedenti, e quindi i materiali disponibili per il riciclaggio non saranno sufficienti. Sarebbe come un serpente che cerca di creare una pelle più grande con gli scarti della sua precedente pelle più piccola.
Come mostrato da Grosse (2010), in un’economia in cui il consumo di materiale aumenta, il riciclaggio può solo ritardare l’esaurimento delle risorse. L’autore prende l’esempio dell’acciaio, il materiale più riciclato al mondo. Con un tasso di riciclaggio attuale del 62% e un aumento annuo del consumo del 3,5%, il riciclaggio sta ritardando l’esaurimento solo di dodici anni. Se manteniamo costanti i tassi di consumo, anche aumentare i tassi di riciclaggio al 90% aggiungerebbe solo sette anni in più prima dell’esaurimento.
Arnsperger e Bourg (2017) applicano il calcolo di Grosse (2010) al rame. Presuppongono che il suo tempo di permanenza nell’economia sia di quarant’anni anni e che il 60% di esso possa essere riciclato con le tecnologie attuali. Dei sei milioni di tonnellate di rame utilizzate nel 1975, ciò significa che quattro milioni avrebbero potuto essere recuperati entro il 2015. Tuttavia, il consumo di rame è cresciuto fino a 16 milioni negli ultimi quarant’anni e quindi, nonostante il riciclaggio, 12 milioni di tonnellate di rame vergine devono ancora essere estratte. In questo caso, anche ipotizzando un tasso di riciclo illusorio del 100%, l’estrazione sarebbe più che raddoppiata.
Ciò che aggrava la limitata disponibilità di prodotti da riciclare è il fatto che una parte significativa di tutte le risorse utilizzate finisce nelle infrastrutture, spesso per un bel po’ di tempo. De Decker (2018) propone un semplice calcolo back-of-the-envelope. Nel 2005 il mondo ha utilizzato 62 Gt di risorse naturali: 4 Gt per prodotti usa e getta di durata inferiore a un anno e 26 Gt per edifici, infrastrutture e beni di consumo di durata superiore a un anno. Lo stesso anno, 9 Gt di risorse sono state dismesse nel processo produttivo. L’autore conclude che la quantità totale di materiali disponibili per il riciclo all’inizio del secondo anno di produzione è di 13 Gt (4 Gt di prodotti usa e getta + 9 Gt di risorse in eccedenza), di cui solo un terzo potrebbe essere effettivamente riciclato. È evidente che questo numero non solo è inferiore a quel che sarebbe necessario solo per produrre quanto l’anno precedente (62Gt), ma ancora di più per un’economia in crescita.
Un’economia circolare in continua crescita è un’impossibilità aritmetica e una contraddizione in termini. Il riciclaggio stesso è limitato nella sua capacità di fornire risorse per un’economia materiale in espansione. Alla fine, il nostro punto non è mettere in discussione l’utilità o la rilevanza del riciclaggio, che potrebbe al contrario svolgere un ruolo cruciale in un’economia non in crescita, ma semplicemente sottolineare il fatto che le speranze di decouplink basate sul riciclaggio sono male informate. La realtà è che i tassi di riciclaggio sono attualmente bassi e solo lentamente in aumento, che i processi di riciclaggio generalmente richiedono ancora una quantità significativa di energia e materie prime vergini, e che è matematicamente impossibile che il riciclaggio corrisponda ai tassi di sostituzione in un contesto di consumi crescenti.
6. Cambiamento tecnologico insufficiente e inappropriato
Il dibattito sulla probabilità di un futuro disaccoppiamento è, in fondo, un dibattito sul potenziale dell’innovazione tecnologica. Il disaccoppiamento potrebbe non essersi ancora verificato e la crescita economica potrebbe sembrare vincolata dal punto di vista biofisico, a causa dell’aumento dei costi di estrazione (Motivo 1), dello spostamento imprevisto dei problemi (Motivo 3), dell’infrastruttura materiale (Motivo 4) o del riciclaggio limitato (Motivo 5), ma il discorso sulla crescita verde si sviluppa partendo dal presupposto che le future innovazioni lo eliminerebbero presto. A nostro avviso, questa argomentazione ipotetica presenta diverse carenze legate allo scopo, alle conseguenze non intenzionali e al ritmo del cambiamento tecnologico. In poche parole, il progresso tecnologico: 1) non prende di mira i fattori di produzione che contano per la sostenibilità ecologica e non conduce al tipo di innovazioni che riducono le pressioni ambientali; 2) non è abbastanza dirompente in quanto non riesce a sostituire altre tecnologie indesiderabili; e 3) non è di per sé abbastanza veloce da consentire un disaccoppiamento che sia assoluto, globale, permanente, ampio e abbastanza veloce. In sostanza non stiamo discutendo contro l’innovazione in sé. Il nostro punto è che l’innovazione tecnologica è molto spesso ambivalente quando si tratta di affrontare questioni ambientali, e che il potenziale delle future innovazioni tecnologiche è molto probabilmente troppo limitato e comunque incerto. Affidarsi alla convinzione che l’innovazione tecnologica porterà tutte le soluzioni necessarie ai problemi ambientali appare come una scommessa estremamente rischiosa e irragionevole.
Non porta a innovazioni rilevanti
L’innovazione non è di per sé una buona cosa per la sostenibilità ecologica. Il tipo desiderabile di innovazione è eco-innovazione o una che si traduca in “una riduzione del rischio ambientale, dell’inquinamento e di altri impatti negativi dell’uso delle risorse rispetto alle alternative pertinenti” (Kemp e Pearson, 2008). Ma questo è solo una tipologia tra le tante. In generale, le imprese sono incentivate a innovare per risparmiare sui fattori di produzione più costosi, con l’obiettivo di massimizzare i profitti. Poiché il lavoro e il capitale sono generalmente relativamente più costosi delle risorse naturali, è probabile che un maggiore progresso tecnologico continuerà a essere diretto verso innovazioni che consentono di risparmiare lavoro e capitale, con benefici limitati, se del caso, per la produttività delle risorse e un potenziale aumento degli impatti assoluti dovuto a più produzione. Ma il disaccoppiamento non si verificherà se le innovazioni tecnologiche contribuiscono a risparmiare manodopera e capitale lasciando inalterati l’uso delle risorse e il degrado ambientale.
Un altro problema è che le tecnologie non solo risolvono i problemi ambientali, ma tendono anche a crearne di nuovi. Supponendo che la produttività delle risorse diventi una priorità rispetto alla produttività del lavoro e del capitale, non c’è ancora nulla che impedisca alle innovazioni tecnologiche di creare ulteriori danni. Per esempio, la ricerca sui processi di estrazione può portare a modi migliori per localizzare le risorse (tecnologie di imaging e analisi dei dati), per estrarle (perforazioni orizzontali, fratturazioni idrauliche e operazioni di perforazione automatizzate) e per trasportarle (rotte marittime artiche). Queste innovazioni possono mirare all’uso delle risorse ma con un risultato opposto all’obiettivo del decouplink, cioè una maggiore estrazione. E questo senza considerare gli effetti collaterali non voluti, che spesso accompagnano lo sviluppo di nuove tecnologie (Grunwald, 2018).
Non abbastanza dirompente
Un altro problema riguarda la sostituzione di tecnologie dannose. Infatti, non basta che le nuove tecnologie emergano (innovazione), esse devono anche venire a sostituire le vecchie in un processo di “exnovation” (Kimberly, 1981). Ciò che serve è una “strategia push and pull” (Rockström et al., 2017): spingere nella società le tecnologie rispettose dell’ambiente e tirarne fuori quelle dannose, come le infrastrutture basate sui fossili.
Innanzitutto, in realtà, un tale processo è lento e difficile da innescare. La maggior parte delle infrastrutture inquinanti (centrali elettriche, edifici e strutture urbane, sistemi di trasporto) richiedono grandi investimenti, che creano poi inerzia e lock-in (Antal e van den Bergh, 2014). Consideriamo, per esempio, i settori dell’energia, degli edifici e dei trasporti, che rappresentano la grande maggioranza del consumo mondiale di energia e delle emissioni di gas serra. La vita iniziale di una centrale nucleare o a carbone è di circa quarant’anni. Gli edifici possono durare almeno altrettanto. La vita media di un’auto è di 12-15 anni, e questo è ciò che serve perché un’innovazione si diffonda nel parco veicoli. L’ampia disponibilità di stazioni di rifornimento di benzina dà un vantaggio infrastrutturale alle auto a benzina, mentre è la situazione opposta per elettriche, a gas, o veicoli a idrogeno, che richiederebbero diverse e nuove infrastrutture di supporto. Costruire un’autostrada o una centrale nucleare è un impegno a emettere almeno finché queste infrastrutture dureranno – Davis e Socolow (2014) parlano di “emissioni impegnate”.
L’energia è un buon esempio: usare più energia rinnovabile non è la stessa cosa che usare meno combustibili fossili. La storia dell’uso dell’energia non è una storia di sostituzioni, ma piuttosto di aggiunte successive di nuove fonti di energia. Man mano che vengono scoperte, sviluppate e distribuite, le vecchie fonti non diminuiscono, piuttosto, il consumo totale di energia cresce con strati aggiuntivi sulla torta del mix energetico. York (2012) rileva che ogni unità di consumo di energia da fonti di combustibili non fossili ha sostituito meno di un quarto di unità della sua controparte di combustibili fossili, mostrando supporto empirico per affermare che l’espansione delle energie rinnovabili è tutt’altro che sufficiente per frenare il consumo di combustibili fossili. La parte relativa del carbone nel mix energetico globale è stata ridotta dall’avvento del petrolio, ma ciò si è verificato nonostante la crescita assoluta nell’uso del carbone (Krausmann et al., 2009).
Inoltre, anche se è stata adottata la decisione di sostituire le energie rinnovabili a tutte le energie fossili, è dubbio che questo processo possa avvenire abbastanza velocemente – o addirittura del tutto, considerando i requisiti materiali. In uno studio recente, l’International Renewable Energy Association (IRENA, 2018) stima che una crescita continua del Pil compatibile con un obiettivo di riscaldamento di 2°C richiederebbe l’aggiunta di 12.200 GW di capacità solare ed eolica entro il 2050. Ciò significa aumentare l’aggiunta di capacità rinnovabile da 2,3 a 4,6 volte. Poiché lo studio presuppone una diminuzione parallela dell’intensità energetica del 2,8% l’anno (il doppio del tasso storico) e poiché mira all’obiettivo di 2°C (e non al più ambizioso 1,5°C), si potrebbe considerare che la velocità di sviluppo delle energie rinnovabili dovrebbe essere ancora più elevato. Per esempio, Garrett (2012) calcola che sarebbe necessario costruire una centrale nucleare al giorno (o un equivalente in energie rinnovabili) per decarbonizzare una domanda energetica che cresce costantemente ai ritmi attuali.
Questo modello osservato con l’energia, per cui le nuove tecnologie integrano anziché sostituire quelle esistenti, può essere applicato anche in molti altri settori. […] L’ascesa della gomma sintetica, la cui produzione è stata avviata durante la seconda guerra mondiale, non ha impedito alla produzione e al consumo di gomma naturale di aumentare costantemente nel corso degli anni del ventesimo secolo (Cornovaglia, 2001). Allo stesso modo, l’esplosione di fibre sintetiche come poliestere e nylon non ha soppiantato la produzione di fibre naturali. Mentre la produzione mondiale annua di fibre sintetiche è cresciuta da meno di 2 Mt nel 1950 a oltre 60 Mt oggi, la produzione di fibre naturali è più che triplicata, da meno di 10 a circa 30 Mt, con variazioni annue dovute alle condizioni climatiche (The Fiber Anno, 2016). Il consumo aggiuntivo ha ampiamente superato la sostituzione.
Non abbastanza veloce
Alla luce degli ultimi decenni di cambiamento tecnologico, il tasso di miglioramento necessario affinché le economie ad alto reddito e ad alta impronta si disaccoppiano in modo assoluto appare sproporzionato rispetto ai tassi di progresso tecnico passati e presenti.
Consideriamo l’esempio delle emissioni di carbonio. Jackson (2016) considera diversi semplici scenari di disaccoppiamento ipotetico. Il primo è il seguente: estensione del trend di crescita economica pro capite annua globale dell’1,3% parallelamente allo 0,8% della crescita annua prevista della popolazione, e un calo medio annuo dell’intensità di carbonio dello 0,6%, osservato dal 1990, comporterebbe una crescita annuale delle emissioni di carbonio dell’1,5% (1,3% + 0,8% – 0,6% = 1,5). Per ottenere una riduzione delle emissioni del 90% nel 2050 rispetto ai livelli attuali, a parità di Pil e ipotesi demografiche, l’intensità delle emissioni dovrebbe diminuire a un tasso medio dell’8% all’anno fino al 2050, riducendo il contenuto medio di carbonio della produzione economica a 20 gCO /US$, ovvero 1/26 di quello che è oggi (497 gCO / US$). In confronto, l’intensità di carbonio dell’economia mondiale è scesa da circa 760 gCO2/US$ nel 1965 a poco meno di 500 g/CO2/US$ nel 2015, ovvero un calo annuale di appena l’1%.
Si possono immaginare molti scenari più ambiziosi (2), ma il messaggio è già chiaro: affidarsi solo alla tecnologia per mitigare i cambiamenti climatici implica tassi estremi di miglioramento dell’eco-innovazione, che le tendenze attuali sono molto lontane dal corrispondere e che, a nostra conoscenza, non sono mai state osservate nella storia della nostra specie. Una tale accelerazione del progresso tecnologico appare altamente improbabile, soprattutto se si considerano i seguenti elementi.
In primo luogo, il miglioramento globale dell’intensità del carbonio è rallentato dall’inizio del secolo, da una media annuale dell’1,28% tra il 1960 e il 2000 allo 0% tra il 2000 e il 2014 (Hickel e Kallis, 2019). Restringendo il campo di applicazione ai soli Paesi OCSE ad alto reddito, dove viene sviluppata la maggior parte delle innovazioni, il tasso di miglioramento dell’intensità della CO2 continua a scendere dall’1,91% (1970-2000) all’1,61% (2000-2014), che è ben lontano dal corrispondere ai livelli per ridurre le emissioni a un obiettivo di 2°C, per non parlare di 1,5°C.
Questa osservazione empirica non è una sorpresa per quanto riguarda la teoria. L’innovazione tecnologica è limitata come soluzione a lungo termine ai problemi di sostenibilità, perché mostra di per sé rendimenti decrescenti (Motivo 1). Tracciando il numero di brevetti di utilità per inventore negli Stati Uniti nel periodo 1970-2005, Strumsky et al. (2010) forniscono prove del fatto che la produttività delle invenzioni diminuisce nel tempo, anche in settori quali l’energia solare ed eolica, nonché le tecnologie dell’informazione (che sono spesso acclamate per il loro potenziale innovativo). “I primi lavori […] risolvono domande poco costose ma ampiamente applicabili. [Poi] domande sempre più anguste e intrattabili. La ricerca diventa sempre più complessa e costosa […]”. Osservando i cambiamenti della produttività totale dei fattori dal 1750 al 2015, Bonaiuti (2018) sostiene che l’umanità è entrata in una fase generale di diminuzione dei rendimenti marginali dell’innovazione.
Per riassumere, la tecnologia non è una panacea. È infatti impossibile prevedere cosa riserva il futuro in termini di innovazioni a lungo termine. Tuttavia, il punto è che sono molteplici e serie le ragioni per essere scettici sul potenziale del cambiamento tecnologico per favorire il tipo di decouplink che abbiamo descritto come necessario. In primo luogo, molte tecnologie che potrebbero aver interrotto parte del legame tra Pil e pressioni ambientali, sono presenti da diversi decenni con effetti minimi. Ancora più importante, tutte le innovazioni non vanno nella direzione di una maggiore sostenibilità ecologica. In un’economia capitalista e orientata alla crescita, l’innovazione è spesso fortemente dipendente da opportunità di profitto, quindi in parte orientata a questo obiettivo. In un tale contesto, la maggior parte delle innovazioni può comportare un aumento del Pil, ma solo alcune di esse potrebbero contribuire a mitigare le pressioni ambientali. I futuri cambiamenti tecnologici possono forse apportare ulteriori miglioramenti, a condizione che questi non siano annullati da effetti di rimbalzo (Motivo 2) e che non si traducano in uno spostamento del problema (Motivo 3). I ritmi passati e attuali delle evoluzioni tecnologiche sono chiaramente in contrasto con i cambiamenti urgenti e radicali richiesti dalle crisi ambientali, e i tassi marginali di miglioramento in calo (Motivo 1) danno poche ragioni di ottimismo per il futuro.
7. Spostamento dei costi
Il decouplink assoluto mostrato negli Stati della prima industrializzazione è evidente solo se quei Paesi esternalizzano la loro produzione ad alta intensità biofisica. Questo effetto di dispersione – a volte chiamato anche “disaccoppiamento attraverso lo spostamento del carico” o “disaccoppiamento virtuale” – può essere intenzionale o congetturale. È intenzionale o diretto quando deriva da una scelta ovvia di trasferirsi in giurisdizioni con normative ambientali meno rigorose: viene definita “ipotesi del paradiso dell’inquinamento”. È congetturale o indiretto quando l’effetto è attribuito a un insieme più ampio di fattori (per esempio differenze nel costo del lavoro, capacità industriale, accesso alle risorse o tecnologia). Sulla base di questa premessa, la globalizzazione farebbe concentrare le attività inquinanti nei Paesi meno regolamentati, il più delle volte a basso reddito. In altri termini, il commercio consentirebbe il disaccoppiamento di alcune regioni a scapito di un’intensificazione delle pressioni ambientali altrove, o in altre parole, permetterebbe ai Paesi ad alto consumo di esternalizzare i costi ambientali della produzione ai Paesi a basso consumo (si parla allora di impatti “incarnati”, per esempio emissioni incarnate, energia incarnata).
Evidenze empiriche di spostamento dei costi ambientali
La letteratura empirica sulle pressioni ambientali incarnate nel commercio è coerente. Esaminando gli studi sul carbonio incorporato, Sato (2014) ha identificato un volume ampio e crescente di emissioni di carbonio incorporato nel commercio internazionale, che nel 2006 rappresentava circa un quarto delle emissioni globali. Guardando 113 Paesi, Peters et al. (2011) rilevano che i trasferimenti netti di emissioni tramite il commercio internazionale dai Paesi a basso reddito a quelli ad alto reddito sono quadruplicati tra il 1990 e il 2008.
Questo non riguarda solo le emissioni, ma anche le risorse. Tra il 1997 e il 2001, il 16% dell’impronta idrica globale è stata incorporata nel commercio globale. La materia prima incorporata nel commercio internazionale ha rappresentato il 30% dell’aumento del consumo di materiale globale nel periodo 1990-2010: “questo effetto è dovuto al crescente contributo alla produzione globale delle economie meno efficienti in termini di materiali” (Plank et al., 2018). Allo stesso modo, Schandl et al. (2018) riferiscono che l’efficienza materiale globale sta diminuendo a causa di un “grande spostamento dell’attività economica da economie molto efficienti dal punto di vista materiale, come Giappone, Repubblica di Corea ed Europa, alle economie attualmente molto meno efficienti dal punto di vista materiale di Cina, India e Sud-est asiatico”.
Per esempio, un rapporto dell’OCSE del 2011 affermava che Germania, Canada, Italia e Giappone avevano raggiunto un disaccoppiamento assoluto del consumo di materiali dal 1980. Anche se, come evidenziato da Bednik (2016), gli autori del rapporto sottolineano che “parti” di questo disaccoppiamento sono dovute all’esportazione di attività manifatturiere nei Paesi emergenti e in via di sviluppo. Nel 2004 la differenza tra l’uso lordo delle risorse (misurato con un approccio produttivo) e l’uso netto delle risorse (misurato con un approccio al consumo) è stato del 27,7% per la Germania e del 24,7% per l’Italia, e fino al 44% per la Francia (Laurent, 2012).
Più in generale, Davis e Caldeira (2010) stimano che nei Paesi ricchi la differenza tra emissioni di produzione e consumo sia intorno al 30%. Rispetto ai tassi di presunto disaccoppiamento assoluto annunciati in alcuni studi, l’unico fattore di spostamento dei costi è sufficiente a spiegare l’osservazione.
Perché avviene lo spostamento dei costi?
Ciò che viene osservato empiricamente trova la sua spiegazione teorica nell’analisi del sistema-mondo e nella teoria della dipendenza (Amin, 1976; Emmanuel, 1972; Wallerstein, 1974). Basandosi su tale tradizione, Hornborg (1998) chiama questo processo “scambio ecologicamente ineguale”: “una relazione di scambio, anche quando è stata avviata volontariamente, può generare un deterioramento sistematico delle risorse, dell’indipendenza e dello sviluppo di una parte potenziale”. Da questa particolare prospettiva, il mondo può essere diviso in Paesi centrali, Paesi semi-periferici e Paesi periferici, con i primi che hanno più potere di importare ricchezza ed esportare il danno.
Emmanuel (1972) ha mostrato come le differenze nel prezzo del lavoro tra gli Stati portino a un trasferimento netto del lavoro incarnato dai più poveri ai più ricchi. Ciò che è rilevante per il disaccoppiamento è che lo stesso meccanismo è all’opera ma con materiale, energia e inquinamento. Se è più economico produrre altrove ciò che è più inquinante, di conseguenza, ci sarà un trasferimento netto del carico ambientale dal nord globale al sud globale. In termini di disaccoppiamento, questo significherebbe che i Paesi centrali si trovano in una situazione di deficit ecologico con la loro periferia.
Il disaccoppiamento in alcune regioni del mondo sarebbe un’“illusione locale” (Hornborg, 2016) o un’“illusione geografica” (Fischer-Kowalski e Amann, 2001) che è resa possibile da un processo di “spostamento del carico ambientale” (Muradian et al., 2001) o “spostamento dei costi” (Kapp, 1950) da una località all’altra o dal presente al futuro. Seguendo questa linea di pensiero, Hornborg (2001,) ci invita a “pensare al mondo come a un sistema, in cui i problemi ambientali di un Paese possono essere il rovescio della medaglia della crescita di un altro Paese”. Ciò è particolarmente rilevante quando si parla di cambiamento tecnologico. Hornborg (2019) sostiene che la tecnologia moderna “dovrebbe essere intesa non semplicemente come un indice di ingegnosità, ma come una strategia sociale di appropriazione (del lavoro e della terra)” o come “una strategia di spostamento (del lavoro e dei carichi ambientali)”. Una aspirapolvere può far risparmiare tempo nella pulizia della casa, ma lo fa a spese di qualcuno che deve spendere tempo ed energia per costruire l’aspirapolvere e di molte altre persone che devono estrarre i materiali necessari per la sua costruzione.
Sarebbe irrilevante celebrare il disaccoppiamento in un Paese se questo si realizza a scapito dell’accoppiamento in un altro, soprattutto se quest’ultimo è più povero del primo. Vi sono forti ragioni teoriche per ritenere che i pochi casi di disaccoppiamento locale celebrati (che restano eccezioni) siano per lo più uno spostamento di pressioni ambientali altrove, come abbiamo mostrato nella Sezione 2. Se è così, significa che la sostenibilità ecologica può essere raggiunta solo attraverso un ridimensionamento della produzione inquinante. Questo motivo è forse il più problematico di tutti. Finché individui, aziende e Paesi rimarranno impegnati nella competizione sui costi, ci saranno incentivi a nascondere i costi ecologici sotto il tappeto, con l’alleggerimento delle impronte ecologiche che rimarrà un semplice trucco statistico.
Conclusioni per la Sezione 3
In questa sezione abbiamo offerto una serie di ragioni per essere scettici sul disaccoppiamento: (1) aumento della spesa energetica, (2) effetti di rimbalzo, (3) spostamento del problema, (4) impatto sottovalutato dei servizi, (5) potenziale limitato di riciclaggio in un’economia in crescita, (6) cambiamento tecnologico insufficiente e inappropriato e (7) spostamento dei costi. Ciascuno di essi, preso individualmente, mette in dubbio la possibilità del decouplink e quindi la fattibilità della ‘crescita verde’. Considerata nel complesso, l’ipotesi del disaccoppiamento appare altamente compromessa, se non palesemente irrealistica. È urgente trarne le conseguenze in termini di policy making e, seguendo il principio di precauzione, allontanarsi dalla continua ricerca della crescita economica nei Paesi ad alto consumo, in particolare nella Ue. Seguendo gli argomenti che abbiamo discusso in questa sezione, l’onere della prova grava sui sostenitori del disaccoppiamento. A meno che non vengano presentate dimostrazioni adeguate e convincenti contro tutte le argomentazioni contenute sopra menzionate, il concetto di decouplink rimane un atto di pura convinzione con scarsa rilevanza per il processo decisionale.
Conclusioni generali: addio alla crescita verde
Questa relazione ha cercato di analizzare una serie di punti. Per cominciare, gli studi scientifici e le discussioni politiche sul decouplink devono essere precisi su come definiscono il termine (è relativo o assoluto, riguarda l’uso o l’impatto delle risorse, è globale o locale, temporaneo o permanente?) e come si collega alle soglie ambientali e agli obiettivi politici esistenti: è sufficiente per raggiungere l’obiettivo? Rappresenta una giusta distribuzione di oneri e benefici?
Nella seconda sezione abbiamo esaminato la letteratura empirica sul disaccoppiamento, alla ricerca di prove del tipo di decouplink che giustificherebbe la crescita verde come strategia politica. La nostra scoperta è chiara: la letteratura sul disaccoppiamento è un pagliaio senza ago. Di tutti gli studi esaminati, non abbiamo trovato traccia che giustifichi le speranze attualmente riposte nella strategia di decouplink. Nel complesso, l’idea che la crescita verde possa affrontare efficacemente le crisi ambientali in corso non è sufficientemente supportata da basi empiriche.
È importante notare che il disaccoppiamento non è né una strategia nuova né mai sperimentata. È stato il principale piano di sostenibilità, almeno per l’OCSE e la Commissione europea, dal 2001, e una caratteristica fondamentale delle politiche ambientali e industriali di molti Stati membri dagli anni ‘90. Non è una strategia innovativa ma piuttosto la continuazione di ciò che è stato fatto nella Ue negli ultimi decenni. Gli scarsi risultati di questa strategia raggiunti finora, riportati nella Sezione 2 di questo report, mettono seri dubbi sul fatto che le prospettive per il futuro a breve e medio termine siano migliori. Considerando gli ultimi due decenni come un periodo di prova, bisogna confrontarsi con il fatto che il decouplink non è riuscito a garantire la sostenibilità ecologica che aveva promesso.
Alla fine, abbiamo affermato che c’erano diversi motivi per essere scettici sul verificarsi del disaccoppiamento in futuro: (1) aumento della spesa energetica, (2) effetti di rimbalzo, (3) spostamento dei problemi, (4) impatto sottostimato dei servizi, (5) potenziale limitato di riciclaggio, (6) progresso tecnologico insufficiente e inappropriato e (7) spostamento dei costi possono, ciascuno individualmente, e ancor più tutti insieme, compromettere o addirittura respingere la possibilità di una ‘crescita verde’. L’intuizione qui non è che i miglioramenti dell’efficienza non siano necessari (e in questo senso, sosteniamo la maggior parte delle politiche mirate al disaccoppiamento sostenute dall’UNEP nel rapporto 2014), ma è teoricamente ed empiricamente irrealistico aspettarsi che queste politiche possano separare in modo assoluto, globale e permanente, dalla sua base biofisica, un metabolismo economico in costante crescita. Data la correlazione storica tra Pil e pressioni ambientali, nonché i miglioramenti tecnologici necessari per una riduzione sufficientemente ampia e rapida dell’uso delle risorse e del degrado ambientale, fare affidamento sul solo decouplink per risolvere i problemi ambientali sembra essere una scommessa estremamente rischiosa e irresponsabile. Inquadrare questioni di giustizia socio-ecologica con il concetto di disaccoppiamento è come tentare di tagliare un albero con un cucchiaio: è probabile che sia un tentativo lungo e che alla fine fallisca.
Come Daly (1977) sostenne già quarant‘anni fa, la scommessa che stiamo affrontando è simile alla scommessa di Pascal. O speriamo che in qualche modo questi sette problemi si risolvano da soli, continuando a crescere come sempre e rischiando un collasso sociale e ambientale; oppure riconosciamo che il disaccoppiamento probabilmente fallirà, con conseguenze irreversibili sull’ambiente, e seguiamo un approccio basato sul principio di precauzione, allontanandoci da una rischiosa strategia di crescita verde e riducendo direttamente le forme problematiche di produzione e consumo di oggi. Alla luce di quanto emerge dal presente rapporto, la sola prudenza giustifica l’abbandono del disaccoppiamento e della crescita verde come unica strategia di sostenibilità.
Poiché le affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie, l’onere della prova dovrebbe ricadere sui sostenitori del decouplink. Come abbiamo sostenuto nella Sezione 3, qualsiasi richiesta di disaccoppiamento deve affrontare una serie di argomenti. Questa è la sfida per ogni politica che tenti di seguire lo scenario di mitigazione dell’IPCC a 1,5°C, e di implementare gli obiettivi di sviluppo sostenibile. Finora, la letteratura sulla crescita verde tace o non convince su nessuno dei sette argomenti che abbiamo elencato in questo rapporto. Riflettendo su questi risultati, la nostra raccomandazione è la seguente: i responsabili politici devono riconoscere il fatto che affrontare le crisi del clima e della biodiversità (che sono solo due delle numerose crisi ambientali) può richiedere un ridimensionamento diretto della produzione e dei consumi economici nei Paesi più ricchi. In altre parole, sosteniamo uno spostamento delle priorità dall’efficienza alla sufficienza, con la seconda che viene anteposta alla prima. La strategia di disaccoppiamento dà per scontati i livelli di consumo e si affida alla speranza che l’ulteriore crescita economica fornisca i mezzi per (sovra)compensare i propri impatti ambientali. Si tratta di un approccio interessante per i politici, in quanto richiede solo cambiamenti minimi nella struttura economica e sociale. Tuttavia, questa attenzione all’offerta appare controintuitiva e ormai superata. L’ossessione per il disaccoppiamento nella politica europea mostra una problematica mancanza di creatività politica e di ambizione, nonché l’incapacità dei politici di immaginare l’economia in modo diverso dalla sua forma attuale.
Il problema è che, anche se il disaccoppiamento potrebbe essere definitivamente dimostrato come impossibile, ci vorrà del tempo prima che sia dimostrato in modo soddisfacente per i suoi sostenitori. Come affermato da Fletcher e Rammel (2017), il disaccoppiamento agisce come una fantasia distraente che giustifica un percorso (sempre più) distruttivo con la promessa di successo e la dimostrazione della sua impossibilità rinviata al futuro. Ma poiché il decouplink non si concretizza, le risorse naturali si esauriscono e gli ecosistemi crollano. In questo senso, il disaccoppiamento non è un’opportunità ma una minaccia. In definitiva, fino a quando il Pil non sarà effettivamente disaccoppiato dalle pressioni ambientali, per evitare conflitti di risorse e disgregazione ecologica, qualsiasi produzione aggiuntiva richiederà uno sforzo maggiore nella riduzione delle risorse e dell’intensità dell’impatto. In questa logica, cercare di ridurre gli impatti durante la crescita ha poco senso, quanto cercare di frenare mentre si accelera davanti a un ostacolo.
Produzione e consumo meno impattanti non si stanno verificando. In uno dei suoi rapporti sul decouplink, l’UNEP (2014) dedica un’intera pagina a descrivere tutte le possibili tecnologie per migliorare l’efficienza del carburante negli autotrasporti, dai deflettori del tetto pieni, ai cofani inclinati e i paraurti aerodinamici, ai parabrezza ricurvi: le opzioni che non menziona includono la semplice riduzione della velocità di questi camion, o la sostituzione del trasporto su gomma con quello ferroviario, o, ancora più efficace, la riduzione del bisogno di merci rilocalizzando produzione e consumo. Il fatto che tali soluzioni basate sul buon senso non siano nemmeno prese in considerazione in un rapporto completo incentrato sulle opzioni politiche, è una prova significativa di quanto sia diventata dominante l’enfasi unidimensionale sull’eco-efficienza.
Contrariamente alle auto a idrogeno, alle reti intelligenti a livello regionale e ai mercati del carbonio ben funzionanti, la riduzione della produzione e del consumo non è una narrativa astratta. Negli ultimi due decenni, i movimenti del Nord globale (città di transizione, decrescita, eco-villaggi, città lente, economie sociali e solidali, economie per il bene comune) hanno iniziato a organizzarsi attorno al concetto di sufficienza, che potrebbe ispirare un approccio politico trasversale. Quello che dicono è che di più non è sempre meglio e che in un mondo a rischio climatico, abbastanza può essere molto. Come sostenuto da parecchi di questi attori, la scelta della sufficienza non è quella del sacrificio, della disoccupazione, dell’aumento delle disuguaglianze, della povertà e del restringimento del welfare state. Al contrario, è la scelta di un’economia equa che rimanga entro le capacità di carico della biosfera o, come il settimo “Programma di azione ambientale” della Ue l’ha definito, “vivere bene entro i limiti ecologici del pianeta”. Ascoltando queste opzioni alternative, dovremmo riformulare completamente il dibattito: ciò che dobbiamo disaccoppiare non è la crescita economica dalle pressioni ambientali, ma la prosperità e la “buona vita” dalla crescita economica.
Questo lavoro evidenzia la necessità di una nuova cassetta degli attrezzi concettuale per informare le politiche ambientali. In questa prospettiva, appare urgente che i responsabili politici prestino maggiore attenzione e sostengano la diversità, già esistente, di alternative alla ‘crescita verde’. Trarre lezioni da questa diversità, dalle persone e dai contesti coinvolti nell’immaginazione e nell’attuazione di modi di vita alternativi, è un modo promettente per risolvere quella che percepiamo come una crisi dell’immaginazione politica. Il successo di quell’iniziativa conta, perché la posta in gioco non è altro che il futuro dei nostri figli e nipoti, se non della civiltà umana in quanto tale.
*Decouplink Debunked, Evidence and arguments against green growth as a sole strategy for sustainability, luglio/ottobre 2019. Report pubblicato da European Environmental Bureau, un’associazione internazionale non-profit composta da una rete europea di 180 organizzazioni ambientaliste di 38 Paesi. Il Report è sotto diritti Creative Commons https://meta.eeb.org/ about/ e la traduzione in italiano è a cura di Paginauno. Il Report è pubblicato suddiviso in quattro parti, questa è l’ultima parte
1) Questo vale anche per gli usi dispersivi che deviano i materiali dai circuiti di riciclaggio (per esempio metalli scarsi utilizzati negli inchiostri e nei pigmenti delle vernici, additivi nel vetro e nella plastica)
2) Poiché nel suddetto scenario di base, il bilancio del carbonio finisce per essere completamente utilizzato entro il 2025, l’autore calcola in un secondo scenario il requisito di una riduzione del 95% a parità di tutto il resto. Il tasso di miglioramento sale a una riduzione del 10,4% dell’intensità del carbonio anno dopo anno, ma il budget del carbonio si esaurisce ancora entro la fine degli anni ‘20. Per evitare ciò, un terzo scenario fissa l’anno obiettivo al 2035 anziché al 2050 e la velocità necessaria del cambiamento tecnologico diventa del 13% per una riduzione del 90% e del 15% per una riduzione del 95%. Nello scenario quattro, ci si aspetta che i Paesi a basso reddito corrispondano al reddito di quelli più ricchi (con un’espansione del 2% nei Paesi ricchi, ci vorrà un tasso di crescita del 7,6% in quelli poveri affinché entrambi i livelli di reddito convergano). In queste condizioni, l’intensità di carbonio deve essere inferiore a 2 gCO2/$ per ottenere una riduzione del 95%, quasi 1/250 di quello che è oggi. Il raggiungimento di questi obiettivi entro il 2035 richiede una riduzione dell’intensità del carbonio per una media annuale del 18%, cento volte più veloce dell’attuale tasso di cambiamento