Parrique T., Barth J., Briens F., C. Kerschner, Kraus-Polk A., Kuokkanen A., Spangenberg J.H.*
Transizione ecologica e sviluppo sostenibile. Il decouplink (disaccoppiamento) tra crescita economica e pressioni ambientali non si sta verificando: può avvenire in futuro? La terza parte del Report di European Environmental Bureau analizza possibilità e probabilità
Qui la seconda parte del Report
Sezione tre. È probabile che il decouplink si verifichi?
Alla ricerca di prove, abbiamo scoperto che il tipo di disaccoppiamento che sarebbe necessario per mitigare in modo efficace ed equo il cambiamento climatico e affrontare altre crisi ambientali, non si vede da nessuna parte. Tuttavia, la mancanza di supporto empirico non è sufficiente per respingere completamente la possibilità di decouplink, che alcuni sostengono potrebbe benissimo verificarsi in futuro con il giusto insieme di cambiamenti politici. Lo scopo di questa sezione è valutare la validità di questa posizione. La nostra affermazione è la seguente: è estremamente improbabile che un disaccoppiamento adeguato (cioè assoluto, permanente e sufficiente) avvenga nel prossimo futuro. Offriamo sette ragioni a difesa di tale proposta: (1) aumento della spesa energetica, (2) effetti di rimbalzo, (3) spostamento del problema, (4) impatto sottovalutato dei servizi, (5) potenziale limitato del riciclaggio, (6) cambiamento tecnologico insufficiente e inappropriato e (7) spostamento dei costi. In quanto segue, esaminiamo ciascuno di questi motivi.
1. Aumento della spesa energetica
La disponibilità delle risorse naturali non dipende solo dalla loro quantità assoluta (quanto è “là fuori”) ma anche dalla loro qualità e accessibilità (quanto sforzo è necessario per estrarle). Quando si estrae una risorsa, vengono generalmente utilizzate per prime le opzioni più economiche, il che significa che le risorse energetiche e materiali più prontamente disponibili mobilitate dall’economia sono già state sfruttate (1). L’estrazione delle scorte rimanenti diventa quindi un’operazione più complessa e tecnologicamente più esigente, socialmente più dirompente, quindi generalmente più costosa, più dispendiosa in termini di risorse ed energia, e più inquinante, con conseguente aumento del degrado ambientale totale per unità di risorsa estratta. È il caso di depositi di metalli e minerali a bassa concentrazione, sabbie bituminose, pozzi offshore profondi, stock situati nelle regioni polari o vicino a città densamente popolate, come il gas di scisto vicino a Parigi. Ciò significa che sono necessarie più risorse intermedie per estrarre le risorse finali necessarie per la produzione della stessa quantità di beni e servizi, innescando un processo contrario al disaccoppiamento.
L’argomento della spesa energetica è talvolta contrastato da coloro che insistono sul fatto che l’energia gioca solo un piccolo ruolo nelle attività economiche. E infatti, da un punto di vista monetario, il settore energetico rappresenta spesso una piccola frazione del Pil totale. Tuttavia, questa prospettiva è stata contestata da diversi studiosi. L’ultimo fino ad oggi, Keen et al. (2019, p.41), sostengono che l’energia non è un sostituto del lavoro o del capitale, ma è precisamente ciò che consente a questi fattori di produzione di svolgere un lavoro utile: “Il lavoro senza energia è un cadavere, mentre il capitale senza energia è una scultura”. Qui il buon senso è forse più utile dell’economia: la velocità media di un’auto (crescita del Pil) potrebbe sembrare determinare il suo consumo di benzina (consumo di energia), ma nessuno può ragionevolmente supporre che un’auto possa correre senza energia.
Energia
Quando si parla di risorse energetiche, l’efficienza dell’estrazione può essere quantificata utilizzando il concetto di EROI (o EROEI), che sta per Energy Return on Energy Invested. L’EROI è il rapporto tra la quantità di energia ottenuta da una risorsa e la quantità di energia che deve essere spesa per estrarla. È una misura di produzione netta di energia; per esempio, un rapporto 1:1 per il petrolio significherebbe che ci vuole un barile di petrolio per estrarre un altro barile di petrolio, mentre un rapporto di 10:2 significherebbe che i costi energetici dell’estrazione di 10 barili sono di due barili. Questo concetto differenzia il costo e l’eccedenza di energia (per esempio, un EROI di 50:1 significa un costo energetico del 2% per un surplus di energia del 98%, mentre uno di 5:1 significa un costo del 20% per un surplus di 80%). Minore è l’EROI, maggiore è il costo energetico o dispendio energetico. Un EROI in calo significa dunque che una parte crescente della produzione di energia deve essere destinata all’ottenimento di energia, il che significa un aumento dell’uso delle risorse e degli impatti.
Diversi autori fanno l’affermazione empirica che alti livelli di costo energetico sono associati a bassi tassi di crescita economica, o addirittura che il Pil non può crescere oltre una certa soglia di costo energetico relativo. […] La logica è semplice: se la spesa energetica supera queste soglie, inizia a fungere da fattore limitante all’impiego di manodopera e capitale.
L’EROI per i combustibili fossili è di particolare interesse, in quanto descrive anche la quantità di emissioni di gas serra generate, in un’economia basata sui combustibili fossili, per fornire un’unità aggiuntiva di energia (tonnellata o barile) – si potrebbe persino parlare di costo del clima per estrarre un barile. Mentre l’intensità di carbonio di tale consumo è fissa (per esempio, bruciare un barile di petrolio emette circa 120 kg di carbonio), un EROI decrescente significa un aumento delle emissioni per unità di energia primaria utilizzata […] Secondo alcune stime, l’EROI per la produzione globale di petrolio e gas è aumentato da 23:1 nel 1992 a 33:1 nel 1999 ed è sceso a circa 18:1 nel 2005, dando credito alla teoria secondo cui l’efficienza ottenuta dai miglioramenti tecnici viene superata nel tempo dall’esaurimento. Alcuni autori come Morgan (2016), parlano ora di un “energy sprawl” per descrivere la necessaria espansione delle infrastrutture richieste per accedere all’energia, e la quota crescente del Pil che assorbirà. Considerando le fonti di energia fossile e rinnovabile, Capellán-Pérez et al. (2018) trovano che l’EROI del sistema energetico globale è passato da 7:1 nel 1995 a 6:1 nel 2018.
Un ottimo esempio di questo processo di aumento dei costi marginali riguarda l’estrazione di diversi tipi di oli non convenzionali. Le sabbie bituminose e lo scisto bituminoso forniscono un EROI medio di 4:1 e 7:1. Il gas di scisto è spesso acclamato come un’abbondante alternativa al petrolio, soprattutto negli Stati Uniti, ma non solo la perforazione di pozzi di scisto è relativamente più costosa sia in termini energetici che finanziari, ma i tassi di calo della produzione tendono a essere significativamente più veloce dei tradizionali pozzi di petrolio.
Un altro esempio è il carbone. Mettendo da parte i problemi dell’inquinamento per un momento, le riserve globali di carbone suggeriscono che, in termini di volume, il carbone è ancora relativamente abbondante. Tuttavia, non tutte le forme di carbone hanno la stessa qualità. L’antracite, che è il carbone più ricco in termini di contenuto energetico, è sempre più scarsa, spingendo le compagnie carbonifere a estrarre carboni bituminosi e sub-bituminosi a minore densità energetica.
Si potrebbe obiettare che la crescita verde funzionerebbe solo con energie rinnovabili e quindi l’EROI dei combustibili fossili è irrilevante. Anche se a breve sosterremo che non lo è, assumiamo per un momento che una sostituzione completa dei combustibili fossili con fonti rinnovabili sia possibile materialmente (trovare minerali e terreno sufficienti per costruire l’infrastruttura energetica) e socio-economicamente (avere energie rinnovabili che incontrano accettazione sociale e risorse di investimento per sostituire completamente quelle fossili). Anche allora, secondo Murphy e Hall (2011), l’EROI delle energie rinnovabili (inferiore a 20:1) è ancora significativamente inferiore rispetto agli alti EROI dei primi tempi dei combustibili fossili. Capellán-Perez et al. (2018) simulano cosa accadrebbe all’EROI medio entro il 2050 se le fonti di energia rinnovabile aumentassero dal 15% al 30% (primo scenario) e dal 15% al 50% (secondo scenario): nel primo, l’EROI medio scende dall’attuale 6:1 a 5:1; e diminuisce fino a 3:1 nel secondo. Se la spesa energetica gioca un ruolo importante nella dinamica della crescita economica, ciò significa che le energie rinnovabili sono fondamentalmente incapaci di spingere un’economia veloce come fanno i combustibili fossili.
Materiali
Allo stesso modo, e per lo stesso tipo di ragioni, la regola dei costi marginali crescenti si applica all’estrazione del materiale. Una serie di studi mostra già come la qualità dei minerali essenziali stia diminuendo. Gradi di minerale più bassi significano più sovraccarico e danni ambientali.
La concentrazione media di rame nel minerale/materiale estratto è passata dall’1,8% nel 1930 allo 0,5% di oggi, una situazione comune ad altri minerali. Tassi di concentrazione inferiori per i minerali significano che è necessario estrarre e spostare volumi maggiori di materiali, e con essi più energia, per estrarre la stessa quantità di minerale. Nel primo rapporto sul disaccoppiamento dell’UNEP, Fischer-Kowalski et al. (2011b, p. 25) stimano che, in media, l’estrazione di materiali oggi richieda uno spostamento di materia tre volte maggiore rispetto a un secolo fa.
Ciò è particolarmente problematico quando si parla di tecnologie verdi. In effetti, l’intensità mineraria delle energie rinnovabili è superiore a quella dei combustibili fossili: 1 kWh di energia rinnovabile richiede 10 volte più metalli di 1 kWh di energia fossile. Se a ciò si aggiunge l’aumento della produzione, emerge il seguente circolo vizioso: sarà necessaria più energia per estrarre più minerali richiesti per costruire più infrastrutture energetiche, parte delle quali è necessaria per fornire l’energia aggiuntiva richiesta per estrarre più minerali, e così via. Le energie rinnovabili possono mitigare alcuni impatti ambientali, ma non possono vincere la scarsità di risorse.
Ciò che spesso viene dimenticato è che questa crescente scarsità di risorse si è tradotta anche in una sempre maggiore espansione della cosiddetta commodity frontier, ovvero avanzamenti in aree precedentemente incontaminate, spesso a scapito della salute delle comunità indigene e degli ecosistemi. Esempi attuali includono l’estrazione di sabbia bituminosa ad Alberta, in Canada, e il petrolio nella foresta pluviale peruviana o, il più noto, in un parco nazionale in Ecuador. Sebbene si tratti di combustibili fossili, la portata dei minerali necessari per costruire infrastrutture per l’energia rinnovabile rappresenta una minaccia simile per la realtà sociale e la biodiversità.
Energia e materiali sono fondamentali per il funzionamento di un’economia, e ancor di più per una che cresce. Proprio come un organismo vivente, un’economia richiede energia e materiali non solo per crescere ma anche per mantenere la sua dimensione attuale. Tutte le prove disponibili indicano un aumento dei costi di estrazione, sia per le fonti energetiche che per i materiali. Se la crescita economica richiede più energia e materiali, e li richiede in aumento anche per estrarre energia e materiali, l’incremento della spesa energetica funge da limite alla crescita e costituisce una barriera al decouplink. Per sostenere che il disaccoppiamento è possibile, si deve mostrare come affrontare il crescente costo marginale dell’energia e dell’estrazione dei materiali.
2. Effetti di rimbalzo
Il miglioramento dell’efficienza delle risorse è probabilmente l’argomento più comune avanzato a difesa del decouplink. Tuttavia, ogni azione che risponde al risparmio di risorse è incline a effetti di rimbalzo, che rappresentano una differenza tra il risparmio ambientale previsto e quello realizzato da un miglioramento dell’efficienza. Un tale fenomeno è stato accennato già nel 18° secolo da Stanley Jevons nella questione del carbone: “È tutta una confusione di idee supporre che l’uso economico del carburante equivalga a un consumo ridotto. […] Qualunque cosa, quindi, conduca ad aumentare l’efficienza del carbone, e a diminuire il costo del suo utilizzo, tende direttamente ad aumentare il valore della macchina a vapore, e ad allargare il campo delle sue operazioni”; da qui l’effetto di rimbalzo, spesso qualificato come “Jevons Paradox”.
Questa idea che i cambiamenti di efficienza sarebbero rimbalzati in un maggiore consumo ha guadagnato terreno nel campo dell’economia energetica nel contesto delle crisi petrolifere degli anni ‘70, in particolare con il lavoro di Khazzoom (1980) e Brookes (1990) – in seguito indicato come il “Postulato di Khazzoom-Brookes”. Dopo oltre quarant’anni di ricerca, la letteratura si è ampliata per comprendere una varietà di cause ed effetti. Per tenere conto del disaccoppiamento generale, il concetto che riteniamo più rilevante è “l’effetto di rimbalzo ambientale”, che va oltre le questioni energetiche per abbracciare una gamma più ampia di preoccupazioni ambientali.
Diversi tipi di effetti di rimbalzo
Gli effetti di rimbalzo si presentano in molte sfumature, a seconda che l’efficienza porti a un aumento del consumo dello stesso prodotto o servizio (effetto di rimbalzo diretto), se le risorse liberate sono allocate altrove (effetto di rimbalzo indiretto), o se il consumo è indotto da cambiamenti strutturali nell’economia nel suo insieme (effetto di rimbalzo strutturale). Questi effetti, da soli o insieme, sono parziali o totali a seconda dell’entità del loro impatto sull’uso delle risorse.
Primo ordine: effetti di rimbalzo diretto
Gli effetti di rimbalzo diretti, o di primo ordine, si riferiscono ai casi in cui il guadagno di efficienza viene reinvestito come consumo aggiuntivo dello stesso prodotto o servizio. Ciò vale soprattutto per i beni normali, per i quali una diminuzione del costo d’uso percepito dagli utenti si traduce in maggiori consumi. Per esempio, un’auto più efficiente nei consumi viene utilizzata più spesso, più velocemente o su distanze maggiori; la benzina risparmiata in efficienza dall’auto è rimbalzata in un maggiore utilizzo dell’auto. Effetti di rimbalzo diretti possono verificarsi anche nella produzione, per esempio quando l’acquisizione di una macchina più efficiente dal punto di vista energetico motiva una produzione aggiuntiva (effetto output).
Secondo ordine: effetti di rimbalzo indiretti
Gli effetti di rimbalzo indiretti, o di secondo ordine, si riferiscono ai casi in cui le risorse liberate da un miglioramento dell’efficienza o della sufficienza sono riallocate a un altro tipo di consumo (effetto di ri-spesa). Per esempio, guidare un veicolo più efficiente in termini di consumo di carburante (efficienza), o decidere di utilizzarlo meno spesso (sobrietà), potrebbe far risparmiare denaro (effetto reddito), che può essere speso in prodotti o servizi di grande impatto (per esempio una vacanza in un luogo lontano raggiungibile in aereo), o investiti in prodotti finanziari problematici (per esempio legati all’estrazione di combustibili fossili). Per i produttori, i profitti derivanti dagli incrementi di produttività possono essere reinvestiti nell’espansione della capacità produttiva (effetto di reinvestimento).
Quello che Wallenborn (2018) chiama “effetto di rimbalzo strutturale” è un buon esempio di tale rimbalzo indiretto (2). È strutturale perché ha a che fare con strutture economiche come mercati, proprietà e denaro. In un’economia globalizzata dove il denaro può essere usato per comprare quasi tutto (si parla di general-purpose money), tutto il potere d’acquisto è un potenziale potere inquinante. Anche se gli euro vengono spesi per prodotti ecologici, e anche se i venditori di questi prodotti spendono questi euro in modo sostenibile, a un certo punto lungo la catena, è probabile che questi euro vengano utilizzati in modo inquinante. Anche gli euro non spesi causeranno consumo di risorse e inquinamento se prestati dalla banca per finanziare nuovi investimenti. L’unico modo per evitare questo effetto sarebbe modificare la struttura del sistema economico stesso (de-mercificazione, localizzazione, denaro per scopi speciali come valute complementari, ecc.).
Terzo ordine: effetti di rimbalzo a livello di economia
L’efficienza nell’uso delle risorse può anche rimbalzare a livello macro (livello economico o macroeconomico effetto di rimbalzo). Per esempio, i guadagni di efficienza nei motori a combustione interna hanno contribuito a rendere il trasporto di auto private efficace e conveniente, e hanno portato a un’ampia diffusione di questa tecnologia; la generalizzazione di questa tipologia di trasporto ha a sua volta guidato la configurazione spaziale delle città e dei territori, determinando ampie architetture spaziali che ora dipendono, e addirittura richiedono, l’uso di auto private. Questa modifica su vasta scala del sistema dei bisogni, si traduce ora in un consumo di energia notevolmente più elevato da parte del settore dei trasporti. In altre parole, automobili più efficienti nei consumi rafforzano l’egemonia delle automobili, a scapito di mezzi di trasporto più sostenibili come treni e biciclette. L’efficienza delle risorse può anche portare a una ristrutturazione dell’economia attorno ad attività ad alta intensità naturale (effetto di composizione). Per esempio, le attività minerarie abbandonate possono essere riprese dopo che lo sviluppo di nuove tecniche efficienti le rende nuovamente redditizie dal punto di vista economico, come è attualmente il caso dell’estrazione dell’oro, dove i minerali di qualità inferiore (compreso il precedente sovraccarico) vengono ora ritrattati.
Rimbalzo parziale e totale
A seconda della sua entità, un effetto di rimbalzo può comportare una diminuzione complessiva (rimbalzo parziale) o un aumento dell’uso delle risorse (rimbalzo totale, conosciuto anche come overshoot o back-fire). Nel primo caso, il risparmio è maggiore del consumo di rimbalzo extra (per esempio un riscaldamento consuma il 50% in meno e il rimbalzo nell’utilizzo è 1,5 volte superiore, il che significa che ci sono ancora risparmi netti del 25%). Nel caso del rimbalzo totale, invece, il consumo rimbalzato è maggiore del risparmio e il risparmio è totalmente compensato (per esempio, se il denaro risparmiato utilizzando un’auto che consuma il 30% in meno di energia per km viene utilizzato per pagare un viaggio di vacanza in aereo) (3). In relazione al decouplink, ciò significa che un effetto rimbalzo può rallentare il tasso di disaccoppiamento atteso (parziale rimbalzo) o invertirlo del tutto (rimbalzo totale).
Evidenza empirica di rimbalzo
Essendo il rimbalzo indiretto e strutturale altamente complesso, la maggior parte della ricerca empirica si concentra sugli effetti di rimbalzo diretti, che sono più facili da misurare. Nella loro revisione dei rimbalzi dell’uso di energia, Ackerman e Stanton (2013) concludono che l’evidenza per gli effetti di rimbalzo diretto totale è rara: “Stime dal 10 al 30% sembrano comuni […] prove effettive di effetti di rimbalzo di 100% o più sembrano essere inesistenti”. Stesse conclusioni per i sondaggi condotti da Greening et al. (2000) e Sorrell (2007), che trovano una gamma diversificata di rimbalzi, a volte bassi come nel caso dell’illuminazione (fino al 15%), moderati come nel caso dell’aviazione (19%), o molto alti come nel caso del trasporto motorizzato (fino al 96%) (4). Galvin (2014) segnala un rimbalzo per il risparmio energetico domestico compreso tra lo 0 e il 50% per gli Stati membri dell’UE tra il 2000 e il 2011: alcuni Paesi, in particolare quelli dell’Europa orientale, nonché Finlandia e Danimarca, mostrano situazioni di rimbalzo totale. Grafton et al. (2018) mostrano che un maggiore utilizzo di una tecnologia efficiente riduce raramente il consumo di acqua. Kyba et al. (2017) segnalano una situazione di back-fire nel caso della tecnologia LED per l’illuminazione da esterni. Antal e van den Bergh (2014) stimano che il rimbalzo della spesa per il risparmio energetico della benzina sia compreso tra il 45 e il 60% per grandi economie come Russia, Cina e India.
Magee e Devezas (2017) esaminano numerose fonti statistiche per stimare l’uso di 69 diversi materiali dal 1960 al 2010, sostenendo che il paradosso di Jevons si applica a quasi tutte le sostanze. Nel loro campione, trovano solo 6 casi di calo assoluto. Quattro di questi materiali – amianto, berillio, mercurio e tallio – sono stati gradualmente eliminati da restrizioni legali a causa di problemi di tossicità. Gli altri due sono la lana, che è diminuita senza diminuire la popolazione mondiale di pecore domestiche o altri animali da produzione di lana, e il tellurio, un sottoprodotto della raffinazione del rame, il cui uso nella produzione di pannelli solari significa che il suo consumo complessivo probabilmente aumenterà di nuovo.
Gli studi empirici sugli effetti di rimbalzo macroeconomico sono più scarsi delle loro micro controparti. Nella sua revisione della letteratura, van den Bergh (2017) conclude che “la maggior parte degli studi a livello economico suggerisce che il rimbalzo complessivo è superiore al 50% e forse molto più alto”. In un’indagine di studi sull’equilibrio generale calcolabile, Dimitropolous (2007) trova tre casi di rimbalzo totale, altri tre sopra il 50%, uno nell’intervallo 30-50% e uno intorno al 15%. Anche se gli effetti di rimbalzo di secondo e terzo ordine sono i più determinanti, rimangono i più difficili da studiare empiricamente.
L’argomento dell’effetto di rimbalzo minimizza la plausibilità dell’ipotesi del decouplink. Pertanto, gli effetti di rimbalzo devono essere presi in considerazione mentre si considerano gli scenari di disaccoppiamento, in quanto potrebbero rendere i tassi di utilizzo delle risorse più o meno sensibili all’introduzione di tecnologie di risparmio delle risorse stesse, e cambiamenti comportamentali guidati dalla sufficienza. Il punto non è argomentare contro gli effetti di rimbalzo, che possono ancora avere impatti complessivi positivi fintanto che rimangono limitati, soprattutto se anticipati dai decisori e controbilanciati da politiche proattive. Ma resta molto rischioso affidarsi esclusivamente a miglioramenti tecnici e settoriali. Piuttosto, ciò che è necessario è una considerazione approfondita e sistematica e un’anticipazione dei potenziali effetti di rimbalzo nella progettazione delle politiche di sostenibilità.
3. Spostamento del problema
Un ulteriore argomento da considerare, insieme agli effetti di rimbalzo, è che gli sforzi per risolvere un problema ambientale possono crearne di nuovi e/o esacerbarne altri. In altre parole, il decouplink di un fattore ambientale può avvenire a scapito del (ri)accoppiamento di un altro. Come Ward (2017) sottolinea per illustrare questo argomento, il mondo ha disaccoppiato la crescita del Pil dall’accumulo di letame di cavallo nelle strade cittadine e dall’olio di balena, ma solo sostituendolo con usi alternativi della natura. In quanto segue, consideriamo l’esempio della mitigazione del cambiamento climatico e mostriamo come quattro diverse fonti di energia spesso considerate come soluzioni per la crescita verde semplicemente cambiano la forma che assume il carico ambientale, spesso con effetti di ricaduta non intenzionali.
Esempio 1: energie rinnovabili
L’energia rinnovabile è spesso descritta come pulita e illimitata, ma è ben lungi dall’essere esente da pressioni ambientali. Le energie rinnovabili e le tecnologie ICT per il miglioramento dell’efficienza riducono le emissioni di carbonio ma esacerbano l’uso del suolo (per esempio fattorie solari e biomasse/biocombustibili), e i conflitti idrici nel caso dell’energia idroelettrica; aumentano la domanda di metallo e i conflitti locali associati alla loro estrazione e, nel caso delle infrastrutture fotovoltaiche, generano inquinamento ed emissioni di gas serra. L’estrazione di minerali di terre rare, che sono essenziali per molte tecnologie verdi, compresi i mulini a vento, provocano enormi danni ambientali, per esempio in Cina.
Prendiamo altri tre esempi tra i tanti. La produzione di batterie per auto elettriche mette sotto pressione l’estrazione di litio, cobalto, nichel e manganese; l’espansione della biomassa per i biocarburanti può invadere le aree protette e portare a un aumento delle monocolture, con un impatto negativo sulla biodiversità e sulla sua conservazione – un buon esempio è la deforestazione nella foresta pluviale indonesiana per piantagioni di olio di palma –; e l’energia idroelettrica produce emissioni di metano quando la crescita delle alghe è catalizzata dal limo intrappolato dalla diga, generando a volte più emissioni di gas serra rispetto a un impianto a combustibili fossili.
Esempio 2: energia nucleare
L’energia nucleare è un buon esempio. Essendo relativamente a emissioni zero (5), è considerata il principale fattore che ha consentito a Paesi come Francia, Svezia, Regno Unito e Germania di ridurre le proprie emissioni di carbonio legate all’energia. L’energia nucleare, tuttavia, richiede l’estrazione di uranio come combustibile, nonché di titanio, cobalto, tantalio, zirconio, afnio, indio, argento, selenio e litio per i materiali da costruzione. Un passaggio al nucleare significa intensificare l’accoppiamento dell’attività economica con vari materiali, a cominciare dall’uranio (6). L’estrazione e il trasporto di questi materiali è di per sé una fonte di pressioni ambientali, per esempio in termini di inquinamento delle acque o perdita di biodiversità a causa del cambiamento del territorio. Inoltre, l’energia nucleare comporta una serie diversa di rischi socio-ecologici legati allo stoccaggio di rifiuti tossici, nonché i rischi di incidenti nucleari e di proliferazione di armi nucleari. In sintesi, l’elettrificazione nucleare sposta l’accoppiamento da un impatto (emissioni di CO2 da combustibili fossili) ad altri (perdita di biodiversità, inquinamento dell’acqua, attività mineraria e trasporti, rifiuti tossici) e sull’uso delle risorse (per esempio, scarsità di uranio).
Esempio 3: gas naturale
Il passaggio dal carbone al gas naturale è un buon esempio di come spostare i problemi da un gas serra all’altro. Il World Resource Institute (2016) riporta un calo del 6% nelle emissioni misurate di gas serra negli Stati Uniti tra il 2000 e il 2014, che insieme a un aumento del 28% del Pil sembra essere un decouplink assoluto temporaneo. Questo cambiamento corrisponde a un grande spostamento dal carbone al gas naturale, che è stato lodato dalle autorità pubbliche per i suoi benefici ecologici. Il problema è che l’estrazione di gas naturale emette metano, che fuoriesce facilmente nell’aria prima di poter essere catturato in un gasdotto, ed è un gas circa 28 volte più potente rispetto alla CO2 nell’intrappolare il calore per un secolo. Turner et al. (2016) trovano che le emissioni di metano degli Stati Uniti sono aumentate di oltre il 30% nel periodo 2002-2014, il che annulla abbondantemente il calo di CO2. Stessi risultati per Howarth et al. (2011), che mostrano che se oltre il 3% del metano proveniente dalle operazioni di trivellazione di scisto dovesse fuoriuscire nell’atmosfera, renderebbe il gas di scisto più dannoso per il clima rispetto al carbone (le perdite segnalate sono comprese tra il 3,6 e il 7,9%) (7). Il problema delle fuoriuscite di metano va oltre il fenomeno relativamente nuovo dell’estrazione del gas di scisto e riguarda anche le operazioni di gas convenzionale, in particolare quelle con infrastrutture difettose.
Ciò che è stato mostrato per le emissioni di gas serra può essere ripetuto per varie altre questioni ambientali. Il punto è che, probabilmente, soluzioni frammentarie non sono all’altezza di affrontare una crisi ambientale complessa e sistematica, con molti fattori interdipendenti in gioco. Sostituire un problema come il cambiamento climatico con un altro, come la perdita di biodiversità, non può essere considerato una soluzione. Per sostenere che il decouplink è possibile, si deve dimostrare che un disaccoppiamento in un tipo di pressione ambientale non si tradurrà in un aumento significativo di un altro tipo di pressione.
4. L’impatto sottovalutato dei servizi
Un’altra speranza per il decouplink tra crescita e pressioni ambientali risiede nella terziarizzazione dell’economia, ovvero nel passaggio dalle industrie estrattive (agricoltura e miniere) e manifatturiere, ai servizi. Questa era già una delle spiegazioni proposte dagli studiosi che per primi descrissero la curva di Kuznets ambientale: “La crescita economica determina un cambiamento strutturale che sposta il baricentro dell’economia dall’agricoltura poco inquinante, all’industria altamente inquinante, per poi tornare a servizi pochi inquinanti”. In effetti, il settore dei servizi in quanto tale è molto meno intensivo sul piano naturale (considerando solo il consumo diretto) rispetto a quello primario e secondario. Se la crescita economica è principalmente guidata dall’espansione delle attività economiche in cui il prodotto è dato soprattutto dalle informazioni (per esempio finanza, assicurazioni, istruzione), allora il consumo di materie prime e di energia, così come i danni ambientali, dovrebbero diminuire. Noi contestiamo la possibilità di tale de-materializzazione attraverso i servizi, per diversi motivi.
Terziarizzazione relativa e assoluta
Perché la terziarizzazione contribuisca al decouplink, deve tradursi in una diminuzione assoluta, e non solo relativa, del volume delle attività industriali. Una situazione in cui il volume dei servizi cresce senza una corrispondente e simultanea contrazione di altri settori, può infatti essere definita terziarizzazione “relativa” dell’economia (la quota delle attività industriali nell’intera economia diminuisce, mentre il suo volume continua ad aumentare), ma si traduce effettivamente in una maggiore pressione ambientale.
Con gli impatti del settore primario e secondario costanti, un settore terziario in crescita si aggiunge alle pressioni, anche se riduce l’intensità energetica media per euro. In realtà, questa situazione sembra essere la regola piuttosto che l’eccezione (8). Lo sviluppo di nuove tipologie di servizi si aggiunge ad altre attività inquinanti invece di sostituirvisi. I consumatori acquistano un account Netflix insieme a, e non invece di, un computer, e i lavoratori possono produrre servizi se vengono nutriti, trasportati e alloggiati, non al posto di cibo, veicoli e case. I prodotti immateriali richiedono un’infrastruttura materiale. Il software richiede hardware, una sala massaggi richiede una stanza riscaldata, e la piattaforma su cui stiamo scrivendo queste stesse parole richiede un computer, insieme a tutte le attrezzature materiali e l’energia necessarie per far funzionare Internet. I servizi non possono essere generati senza l’estrazione di materie prime, senza la fornitura di energia e senza la costruzione di infrastrutture, tutte attività strettamente legate alle pressioni ambientali. L’espansione del settore dei servizi difficilmente può essere disaccoppiata, perché fa parte di un’economia che cresce come un tutto integrato.
Alla domanda: “Le società con un settore dei servizi più ampio si smaterializzano davvero?”, Fix (2019) risponde un inequivocabile “No”. Guardando a 217 Paesi nel periodo 1991-2017, conclude che “l’evidenza indica che una transizione al servizio non porta alla dematerializzazione assoluta del carbonio”. Allo stesso modo, Suh (2006) calcola che nel 2004, negli Stati Uniti, 1 dollaro speso per servizi apparentemente privi di materiale richiede 25 centesimi di produzione dai settori manifatturiero, dei servizi pubblici e dei servizi di trasporto. In Danimarca, Jespersen (1999) rileva che, se si includono tutti gli usi indiretti dell’energia, il settore dei servizi è in realtà ad alta intensità energetica, quanto quello manifatturiero. In Spagna, Alcántara e Padilla (2009) ritengono che il settore dei servizi sia responsabile della parte del leone dell’aumento delle emissioni, e questo a causa della sua dipendenza da altre attività economiche inquinanti.
Inoltre, i lavoratori nei settori dei servizi ricevono salari, che vengono utilizzati per l’acquisto di articoli materiali prodotti nei settori manifatturieri. Se il valore di un bene de-materializzato aumenta, significa che cresce anche il potere d’acquisto di chi lo vende (potenziale rimbalzo della ri-spesa), e che i clienti possono lavorare più ore per permetterselo (potenziale rimbalzo del reinvestimento), ed entrambi hanno implicazioni sulle risorse. Quindi l’intensità ecologica diretta di un’azienda specializzata nella pubblicità su Internet può essere relativamente bassa, ma fornisce ai suoi dipendenti uno stipendio elevato e la pubblicità che produce favorisce il consumo di prodotti e servizi ad alta intensità di materiale o energia, come automobili, vestiti, gadget tecnologici e viaggi di vacanze in aereo.
Dal punto di vista ambientale, non tutti i servizi sono ugualmente desiderabili, e quindi alcune forme di terziarizzazione sono più desiderabili di altre. I servizi in un settore spesso si riversano in più consumi o produzione in un altro; come le attività finanziarie e di marketing, il cui scopo è aumentare le vendite di prodotti manifatturieri e gli investimenti nelle industrie estrattive. Ma anche servizi ICT e sviluppo software, che consentono alle imprese a scopo di lucro di impegnarsi nell’obsolescenza programmata o, più in generale, in aggiornamenti hardware più rapidi. O anche quei servizi che si affidano a strumenti materici e d’impatto, una seggiovia su una pista da sci o fare paracadutismo da un aereo. Al contrario, l’espansione dei club di yoga, dei terapisti di coppia e dei centri di arrampicata può essere meno intensiva per la natura, anche se non necessariamente (vedi “Anche i servizi hanno un’impronta”).
Non c’è molta terziarizzazione da fare
La terziarizzazione fornisce solo un decouplink parziale e, cosa importante, già avvenuto nella maggior parte dei Paesi OCSE. In queste economie, la quota dei servizi sul Pil è spesso già elevata, ed è problematico perché si tratta proprio di quei Paesi che hanno la più alta impronta ecologica pro capite e quindi dovrebbero ridurne maggiormente l’impatto. Gli Stati che hanno già raggiunto un alto grado di terziarizzazione (oltre il 70% del valore aggiunto viene generato nel settore dei servizi), conservano una piccola parte industriale sempre più difficile da comprimere.
Questo perché alcuni settori semplicemente non possono essere de-materializzati. È il caso dell’agricoltura, dei trasporti e dell’edilizia abitativa, che spesso si trovano ai vertici per emissioni e materiali utilizzati. Il cemento è un buon esempio: rappresentando il 5% delle emissioni globali di gas serra, la sua produzione implica sia elevati livelli di emissioni di processo e consumo di energia, sia una quantità importante di sabbia marina sempre più scarsa. Sebbene le costruzioni possano sostituire altri materiali al cemento, è difficile immaginare come i servizi possano eventualmente offrire sostituti adeguati alla maggior parte della produzione industriale per quanto riguarda bisogni elementari come cibo, alloggio o mobilità (il servizio di consegna della pizza a domicilio richiede strade, un veicolo e, non ultimo, una pizza fatta con ingredienti materici). Pertanto, la de-materializzazione riguarda solo una frazione limitata dell’economia globale, lasciando irrisolta la maggior parte delle pressioni ambientali.
Anche i servizi hanno un’impronta
Anche se i servizi sono meno intensivi nell’impatto sulla natura rispetto ai beni industriali, hanno comunque requisiti materiali e ripercussioni ambientali, e quindi non ci si può aspettare che alimentino un processo biofisicamente illimitato di creazione di valore. In uno dei loro rapporti di disaccoppiamento, UNEP (2014) trova una relazione lineare tra la spesa per i servizi e le emissioni di CO2, nella direzione di più servizi uguale a più emissioni.
Gadrey (2008) indica tre fattori che spiegano tale correlazione. I servizi richiedono che le persone viaggino, dal fornitore al cliente (es. consegna della posta) o viceversa (es. il pendolarismo a scuola), il che è reso possibile dalle infrastrutture materiali, dai veicoli e dai consumi energetici; poi sono spesso ancorati in specifici spazi materiali (edificio universitario, stazione ferroviaria, aeroporto, ospedale, uffici) la cui costruzione, esercizio e manutenzione richiedono materiali ed energia; si basano inoltre su strumenti materiali, la cui produzione e utilizzo sono tutt’altro che neutri per l’ambiente (ICT, computer, lettori di carte di credito, schermi e display, infrastrutture di raffreddamento nei data center).
In termini di materiali, la realizzazione di prodotti di tecnologia dell’informazione e della comunicazione come computer, telefoni cellulari, schermi LED, batterie e celle solari richiede metalli scarsi come gallio, indio, cobalto, platino, oltre a minerali rari. Un’espansione dei servizi significa più transazioni che utilizzano più dispositivi, che richiedono più minerali la cui estrazione comporta impatti ambientali. Non solo questi requisiti di materiale implicano un impatto ambientale significativo (per l’estrazione), ma la loro disponibilità e riciclabilità limitata (vedi Punto 5, “Potenziale limitato di riciclaggio”) pone anche limiti assoluti alla crescita dei servizi basati sui materiali. E anche se è comune osservare un calo del numero di prodotti necessari per fabbricare apparecchiature, questi guadagni di efficienza sono stati superati dalla crescita del volume delle apparecchiature e dell’intensità di utilizzo (Punto 2), spesso a causa della diminuzione della durata di vita per l’obsolescenza programmata (Punto 5).
I servizi richiedono energia, non solo per costruire l’infrastruttura materiale su cui fanno affidamento, ma anche semplicemente per funzionare. Non unicamente le apparecchiature degli utenti finali (laptop, smartphone, router) ma anche le infrastrutture, come i data center e le reti di accesso (i cablaggi e le antenne che trasportano i dati). Malmodin et al. (2010) calcolano che le ICT hanno utilizzato il 3,9% dell’elettricità globale nel 2007, rappresentando l’1,3% delle emissioni mondiali di gas serra. I numeri sono simili in altri studi; per esempio, il settore dell’informazione e delle tecnologie ha prodotto il 2% delle emissioni globali di CO2 nel 2007 (830 MtCO2 e), metà delle quali rappresentate da computer e dispositivi e l’altra metà da data center e telecomunicazioni. A partire dal 3,9% dell’elettricità globale utilizzata dalle ICT registrata da Malmodin et al. (2010), Van Heddeghem et al. (2014) hanno trovano un aumento al 4,6% entro il 2012. Secondo le previsioni per il 2030, Andrae e Edler (2015) stimano che le ICT potrebbero consumare fino al 51% dell’elettricità globale, contribuendo fino al 23% delle emissioni mondiali di gas serra.
Di per sé, Internet rappresenta tra l’1,5 e il 2% del consumo energetico mondiale. Considerando solo il lato degli utenti, i 100 siti web francesi più visitati richiedono 8,3 GWh o il consumo di energia equivalente a 3.077 famiglie. Il consumo di energia derivante da Bitcoin emette 69 MtCO2 annui e, se utilizzato in modo più ampio, potrebbe da solo produrre emissioni sufficienti per spingere il riscaldamento sopra i 2°C in meno di tre decenni. Carr (2006) stima che il consumo di energia di un avatar di Second Life sia di circa 1.752 kWh annuali, paragonato a una media mondiale per gli esseri umani di 2.436 kWh. Guardando il costo ecologico della musica negli Stati Uniti, Devine e Brennan (2019) scoprono che, anche se è diventata quasi completamente digitale, è, in termini di gas serra, più inquinante di quanto non lo sia mai stata: da 140 milioni di kg nel 1977 a 157 nel 2000 e tra 200 e 350 nel 2016.
A causa della prevalenza delle fonti fossili nell’attuale mix energetico dei Paesi che ospitano i data center, l’ICT finisce con un pesante contributo in termini di emissioni. Il rapporto di Greenpeace Quanto è pulita la tua nuvola? (2012) rileva che, per esempio, il 39,4% dell’elettricità utilizzata dai server di Facebook è generato dalle centrali a carbone, mentre per Apple è il 49,7%. Questo consumo di energia si aggiunge a un livello già elevato di domanda energetica, esacerbando gli impatti ambientali del settore. E forse sì, questo impatto sul clima scomparirebbe se tutti i servizi funzionassero con energia rinnovabile, ma, ammesso che ciò sia possibile (Punto 1), genererebbe comunque una serie di problemi ambientali (Punto 3).
La cosiddetta “economia dei servizi” porta uno zaino biofisico più pesante di quanto si possa pensare. Nei Paesi con gli imperativi di mitigazione più urgenti, il settore dei servizi è già stato sviluppato al massimo senza i benefici di una pressione ambientale decrescente in modo assoluto. I servizi hanno un’impronta che, anche se inferiore ai prodotti manifatturieri, viene spesso aggiunta in cima alla pila della pressione ambientale, senza che si verifichino molte sostituzioni. Questo perché l’economia dei servizi può esistere solo al di sopra dell’economia materiale, non al suo posto. Inoltre, i servizi come la pubblicità di prodotti finanziari possono promuovere attivamente una produzione più inquinante, il che si traduce in un aumento generale delle pressioni ambientali. Ancora una volta, non ci poniamo contro l’economia dei servizi; anzi, è fondamentale sostituire i posti di lavoro nei settori ad alta intensità di risorse con lavori ad alta intensità di manodopera. Piuttosto, il punto che affermiamo è che ridurre direttamente la produzione nei settori problematici sarebbe più efficace che sviluppare attività di contorno, sperando che in qualche modo si verifichi una sostituzione.
… continua…
Qui la quarta e ultima parte del Report
*Decouplink Debunked, Evidence and arguments against green growth as a sole strategy for sustainability, luglio/ottobre 2019. Report pubblicato da European Environmental Bureau, un’associazione internazionale no-profit composta da una rete europea di 180 organizzazioni ambientaliste di 38 Paesi. Il Report è sotto diritti Creative Commons https://meta.eeb.org/ about/ e la traduzione in italiano è a cura di Paginauno. Il Report è pubblicato suddiviso in quattro parti.
1) L’idea di buon senso secondo cui le opzioni più semplici ed economiche vengono generalmente utilizzate per prime (il proverbiale “raccogliere i frutti più bassi”) è indicata in economia come la “legge dell’aumento del costo marginale” e, quando applicata alle risorse, è talvolta chiamata “best-first principle”. Tale regola pratica si applica ampiamente e può essere facilmente osservata in molteplici situazioni: dall’estrazione di risorse all’aumento dell’efficienza e all’abbattimento dell’inquinamento
2) Nelle parole dello stesso Jevons che scrive in The Coal Question (1865): “[…] In effetti, non c’è quasi un solo uso di carburante in cui un po’ di cura, ingegno o spesa di capitale non possano portare a un risparmio considerevole. Ma nessuno deve supporre che il carbone così risparmiato venga risparmiato: viene risparmiato solo da un uso per essere impiegato in altri, e i profitti ottenuti portano presto a un’occupazione estesa in molte nuove forme. I vari rami dell’industria sono strettamente interdipendenti, e il progresso di ognuno porta al progresso di quasi tutti”
3) In letteratura, e seguendo Ehrhardt-Martinez e Laitner (2010), ciò che chiamiamo rimbalzo parziale e totale viene spesso definito “rimbalzo tipico” e back-fire. Gli autori aggiungono anche una terza categoria: un “rimbalzo negativo” per situazioni in cui il risparmio energetico effettivo è superiore al previsto (per esempio, “una famiglia che installa un nuovo scaldabagno ad alta efficienza energetica può essere motivata a trovare altri modi per risparmiare energia, facendo docce più brevi, lavando i panni in acqua fredda o limitando l’uso della lavastoviglie a pieno carico”. Il migliore esempio di rimbalzo negativo è a causalità diretta: le pareti isolanti riducono la richiesta di riscaldamento, rendendo sovradimensionati gli impianti esistenti. Questo, a sua volta, richiede l’installazione di caldaie nuove e più piccole, più efficienti, in modo che la domanda di energia diminuisca nuovamente. Per evitare confusione, altri preferiscono parlare di un effetto di “superconservazione” o di effetti “amplificanti” e di “leva”
4) Per tutte le cifre fornite, i lettori dovrebbero essere consapevoli che la metodologia utilizzata influenza i risultati. Per esempio, gli studi che utilizzano l’analisi del ciclo di vita insieme al concetto di effetto di rimbalzo ambientale, rilevano una maggiore probabilità di back-fire. È il caso di Font Vivanco et al. (2016) guardando le auto elettriche
5) Questo rimane oggetto di controversia, poiché è difficile calcolare l’impronta di carbonio dell’intero ciclo di vita di una centrale nucleare, compreso lo stoccaggio indefinito dei rifiuti e le potenziali operazioni di bonifica dopo gli incidenti
6) Se fosse solo per l’uranio, le riserve attualmente identificate – 7,6 milioni di tonnellate commercialmente recuperabili a meno di 260 US$/kgU nel 2015 – consentirebbero appena tredici anni di produzione di elettricità alla domanda attuale
7) Questo problema di perdita non è esclusivo del fracking: succede anche a causa di antiche infrastrutture o nel caso di miniere a cielo aperto, dove il metano non viene catturato attivamente
8) Dovremmo anche dire che le situazioni in cui la terziarizzazione in un Paese avviene a spese della (re)industrializzazione in un altro sono ugualmente problematiche. perché spostano solo il carico ambientale da un’altra parte (tratteremo questo aspetto a lungo nel punto 7: “Spostamento dei costi”