Il futuro ‘ecologico’ si regge sull’estrattivismo e la devastazione ambientale delle miniere di litio: viaggio nella roccia dell’Australia e nelle saline del Cile
Con 339 voti favorevoli e 249 contrari, su proposta della Commissione europea il 9 giugno scorso il Parlamento Ue approva il divieto di commercializzare veicoli che emettono CO2 a partire dal 2035, con lo stop alla produzione di veicoli a benzina o diesel e un forte impulso a quelli elettrici. Una proposta contenuta nel pacchetto “Fit for 55” che prevede un abbassamento del 55% delle emissioni di gas a effetto serra entro il 2030, nel contesto del Green Deal europeo con cui la Commissione punta alla neutralità climatica nel 2050. Il 29 giugno, con un accordo tra i ministri dell’Ambiente dell’Unione, lo stop ai motori a combustione viene approvato anche dal Consiglio europeo. Prima di diventare legge, le proposte contenute nel pacchetto dovranno passare attraverso ulteriori negoziati tra Consiglio e Parlamento, ma la direzione è ormai presa.
La strada della transizione ecologica imboccata dall’Unione europea – di pari passo con gli obiettivi fissati anche a livello mondiale per frenare gli effetti del riscaldamento climatico – promette un futuro di energia pulita e rinnovabile a zero emissioni. Ma la focalizzazione posta esclusivamente sui livelli di emissione di gas a effetto serra nasconde il reale costo ambientale della transizione verde. Per sostituire le fonti di approvvigionamento del sistema energetico globale oggi basato principalmente sullo sfruttamento degli idrocarburi, infatti, sarà necessaria la produzione su larga scala di tecnologie che continueranno a essere alimentate dallo sfruttamento intensivo delle risorse naturali del pianeta: semplicemente cambiano le materie prime. Nel prossimo futuro, il settore energetico diventerà uno dei traini dell’industria estrattiva di minerali, con una vera e propria esplosione della domanda di quelli ritenuti strategici: litio, nickel, cobalto, manganese e grafite imprescindibili per le batterie, terre rare fondamentali per i magneti permanenti dei motori elettrici e delle turbine eoliche, rame e alluminio utilizzati nelle reti elettriche.
Per un rapporto della International Energy Agency (IEA) (1), nel 2040 il fabbisogno di minerali per le tecnologie green sarà dalle due, alle quattro, alle sei volte maggiore di quello attuale, a seconda che vengano adottate politiche di riconversione energetica più o meno nette. In uno scenario che vede mantenuti gli impegni presi con l’Accordo di Parigi del 2015 (limitazione dell’incremento del riscaldamento globale “ben al di sotto” dei 2°C), nel 2040 più del 90% della domanda mondiale di litio, tra il 60 e il 70% di nickel e cobalto e oltre il 40% di terre rare e rame, servirà ad alimentare esclusivamente la transizione energetica. E sarà soprattutto la produzione di batterie per i veicoli elettrici e per i sistemi di stoccaggio di energia a spingere la domanda, che per il settore aumenterà di almeno trenta volte rispetto a quella attuale. Il passaggio alla mobilità elettrica è infatti al centro della transizione: come illustrano i dati dell’IEA, per la produzione di un’auto elettrica sono necessari oltre 200 kg di minerali, sei volte la quantità impiegata per le auto convenzionali (Grafico 1, pag. 29). Una sproporzione che si ripete anche nel rapporto tra gli impianti eolici e fotovoltaici e i generatori di energia a carbone o a gas (Grafico 2, pag. 31).
La retorica dello sviluppo green deve quindi fare i conti – è il caso di dirlo – con un cortocircuito: il tanto anelato futuro ecologico “a impatto zero” sul pianeta si regge sull’estrattivismo e il carico di devastazione ambientale che si porta dietro. Vediamo il caso esemplificativo del litio.
Geografia e geopolitica del litio
Metallo tenero bianco-argenteo storicamente utilizzato nella produzione di ceramiche, vetro e grassi lubrificanti, il litio ha visto un progressivo aumento della richiesta globale a partire dal 2010, parallelamente alla crescita del mercato delle batterie. Utilizzate nei prodotti di elettronica, nei veicoli ibridi ed elettrici e tra le migliori candidate anche a garantire lo stoccaggio dell’energia rinnovabile, nel 2021 costituivano il 74% della destinazione finale di mercato (2). Secondo i dati IEA nel quadro dell’Accordo di Parigi, nel 2040 la domanda annuale sarà 42 volte quella attuale. Se per i prodotti di elettronica la quantità di litio richiesta varia dai 2 ai 10 grammi, infatti, per le auto sono necessari tra i 7 e i 13 kg, e per lo stoccaggio di energia delle reti elettriche su larga scala si arriva fino a 14 tonnellate di minerale (3).
La transizione ecologica, per come è stata impostata, avrà quindi bisogno dell’estrazione di enormi quantità di questa materia prima, che in natura è presente principalmente nelle rocce di pegmatiti e nelle salamoie – soluzioni acquose naturali con alte concentrazioni di sali – delle saline. Come riporta lo U.S Geological Survey (4), le risorse mondiali identificate di litio ammontano a 89 milioni di tonnellate, di cui il 56% si trova nel cosiddetto “triangolo del litio” sudamericano che si estende sul territorio di Bolivia (21 milioni), Argentina (19) e Cile (9,8); altri giacimenti importanti sono presenti negli Stati Uniti (9,1), in Australia (7,3) e in Cina (5,1). Per quanto riguarda le riserve, vale a dire le risorse attualmente estraibili e utilizzabili nei processi industriali, il primo Paese è il Cile con 9,2 milioni di tonnellate, seguito da Australia (5,7), Argentina (2,2), Cina (1,2) e Stati Uniti (750 mila): la Bolivia, come vedremo, pur avendo i giacimenti più grandi del pianeta non compare in questa classifica, a causa delle caratteristiche fisiche non favorevoli del Salar de Uyuni, la salina in cui si trovano.
Relativamente alla produzione annuale, infine, guidano la classifica l’Australia, con 55 mila tonnellate, e il Cile con 26 mila. Ma è la Cina a controllare la buona parte delle miniere attive, nonostante abbia una produzione domestica di appena il 14%: il 25% di SQM, che opera in Cile con la statunitense Albemarle, fa capo alla società cinese Tianqi Lithium (5), così come il 51% della miniera di Greenbushes in Australia (6) – la più grande del mondo –; l’impresa Jiangxi Ganfeng Lithium, con il 46,7% detiene la quota di maggioranza di Minera Exar (7) attiva nei giacimenti argentini, oltre a partecipazioni nelle miniere di Mount Marion (8) e Pilbara Pilgangoora in Australia (9); l’azienda Sinomine, infine, è proprietaria di Bikita Minerals in Zimbabwe (10). Non solo. La Cina gestisce quasi il 60% della raffinazione di litio (11) e oltre il 70% di quella dei minerali necessari per la produzione delle batterie (12), di cui controlla il 79% della manifattura (13). Un dominio economico con cui la geopolitica dovrà fare presto i conti.
Dalla roccia: rifiuti chimici e CO2
Il metodo di estrazione del litio varia a seconda del tipo di formazione minerale in cui si presenta: dagli scavi rocciosi di pegmatite nelle miniere a cielo aperto in Australia, Cina, Brasile, Zimbabwe e Portogallo, alle vasche di evaporazione delle salamoie delle saline in Cile, Argentina, Bolivia, Stati Uniti e Cina.
La pegmatite è una roccia magmatica che contiene minerali ricchi di litio, tra i quali lo spodumene da cui viene estratta la materia prima. La concentrazione nel minerale varia dal 4% dell’Australia – che come abbiamo visto ne è il principale Paese produttore – all’1,6% dell’Africa e il circa 1% del Nord America.
Dopo le perforazioni e l’utilizzo di esplosivi per la rimozione del materiale roccioso, si passa ai trattamenti di purificazione: una prima fase di separazione dei minerali con l’utilizzo di sostanze chimiche per isolare lo spodumene, che viene poi sgretolato, portato a oltre 1.000 gradi e successivamente raffreddato per essere trattato con acido sulfurico; nuovamente sottoposto a calore a 200 gradi, filtrato e fatto precipitare per rimuovere le impurità; infine, l’aggiunta di carbonato di sodio o di ossido di calcio permette di ottenere, rispettivamente, il carbonato di litio e l’idrossido di litio utilizzati nelle batterie (14).
Un processo che richiede grandi quantità di energia e causa elevate e-missioni di gas a effetto serra – tra cui 15 tonnellate di CO2 per ogni tonnellata di litio prodotto (15) – oltre a generare rifiuti chimici convogliati con le acque di scarto in vasche di raccolta spesso soggette al rischio di perdite, con il conseguente rilascio di contaminanti nel suolo, nelle falde acquifere e nelle acque superficiali circostanti.
Dalla salina: acqua che elimina l’acqua
Il metodo di estrazione impiegato nelle saline è totalmente diverso. Una volta perforata la crosta superficiale di sale, la salamoia sottostante viene pompata in superficie e incanalata in vasche di raccolta all’aria aperta, distribuite in prossimità del sito di estrazione, dove viene lasciata evaporare al sole e al vento per un periodo di circa 12-18 mesi. Questo processo prevede il passaggio in diverse vasche per permettere la precipitazione dei sali di scarto e la separazione del litio, che nelle salamoie ha una concentrazione molto inferiore rispetto allo spodumene, con un valore tra lo 0,01% e lo 0,2%. Salamoie ad alto contenuto di magnesio complicano il processo, trattandosi di un elemento con proprietà simili al litio che ne ostacola la separazione e rende necessaria una lavorazione più complessa e più costosa. Una volta ottenuta una concentrazione ottimale, il processo si sposta negli impianti di lavorazione, con l’aggiunta di additivi chimici per la rimozione delle impurità e il successivo trattamento con carbonato di sodio per ottenere il carbonato di litio di utilizzo industriale. Un ulteriore passaggio è poi richiesto per arrivare all’idrossido di litio.
Proprio perché si basa sull’evaporazione dell’acqua delle salamoie, le condizioni ambientali più o meno favorevoli influenzano enormemente il ritmo di estrazione. Non a caso le miniere attualmente attive si trovano in zone molto aride e ventose, soggette a radiazioni solari intense e con livelli di precipitazione atmosferica risibili. Emblematico in questo senso il caso della Bolivia: un più alto livello di precipitazioni e un più basso tasso di evaporazione rispetto ad Argentina e Cile, oltre alla grande concentrazione di magnesio nelle salamoie, fa sì che le tecnologie attualmente disponibili non permettano un’estrazione vantaggiosa in quello che è il più grande deposito del pianeta.
In generale, è un tipo di estrazione che riesce a isolare dal 30 al 70% di litio (a seconda dei siti) e accumula 115 tonnellate di rifiuti non tossici – principalmente sali di scarto – per ogni tonnellata ottenuta. Ma prosciuga acqua.
Alla fine del processo, evapora il 95% dell’acqua delle salamoie convogliata nelle vasche di raccolta, con una perdita di 2 milioni di litri di acqua per ogni tonnellata di litio estratta; in quello che è già un ambiente estremamente arido. Anche le falde acquifere di acqua dolce, poste ai bordi delle saline, vengono interessate dall’attività mineraria: la fase di purificazione ne utilizza fino a 50 m3 per ogni tonnellata di litio ottenuta. E i due sistemi idrici non sono isolati.
Nonostante l’acqua delle salamoie non sia utilizzabile dall’uomo né adatta per gli animali, a causa dell’alta concentrazione di sali (nove volte maggiore rispetto all’acqua di mare), si trova in equilibrio dinamico sia con l’ambiente circostante – soggetta a un lento ricambio, regolato dall’elevato tasso di evaporazione naturale e dalle rare precipitazioni – sia con il sistema idrico di acqua dolce: a causa del pompaggio da parte dell’attività mineraria, si genera infatti una depressione che, nel caso di saline con pareti permeabili, provoca l’afflusso di acqua dolce dalle falde acquifere verso il sito di estrazione (16). L’attività delle miniere danneggia quindi l’equilibrio idrico complessivo e l’ecosistema, sottraendo acqua dolce a un ambiente che già soffre di siccità, con conseguenze per gli animali e la vegetazione oltreché per la vita delle comunità che abitano queste terre aride.
Condizioni ben conosciute nel Salar de Atacama cileno – uno dei salares del “triangolo del litio” latinoamericano che pesano per quasi l’80% dei depositi di salamoie esistenti – da cui proviene circa il 30% della produzione mondiale. Un’altitudine di 2.300 metri e una superficie di 3.000 km2, precipitazioni nell’ordine di 25 mm/anno e un tasso di evaporazione di 2.000 mm/anno, lo rendono una delle zone più aride del pianeta, luogo ideale per lo sfruttamento minerario. L’attività delle miniere di litio – ma non solo, vista la compresenza delle miniere di rame, altra materia prima da sempre estratta a grande intensità in questo territorio e fondamentale anche per la transizione energetica, come abbiamo visto – ha causato la perdita di ben il 65% dell’acqua disponibile (17).
Secondo un’analisi delle immagini satellitari del periodo tra il 1997 e il 2017 condotta dalla Arizona State University (18), esiste una chiara correlazione tra la degradazione ambientale nel salar e l’espansione della miniera di litio, che in vent’anni è passata da un’area di 20,5 km2 a una di 80,5 km2: vicino ai siti di estrazione e alle vasche di evaporazione, è stata rilevata una più rapida diminuzione della copertura di vegetazione e un maggiore aumento dell’aridità del suolo rispetto alle altre zone, con un incremento della temperatura di superficie da 28,4°C a 32,9°C in estate, e da 8,3°C a 14,1°C in inverno.
Un’altra indagine della rivista E&T (19), oltre a confermare questa causalità diretta, evidenzia una forte relazione inversa tra i livelli di acqua estratta e pompata nelle vasche di evaporazione della miniera e quelli delle lagune situate alle estremità del salar, habitat di nidificazione delle tre specie di fenicotteri che popolano l’Atacama. Diminuzione che rende l’acqua delle lagune inospitale per gli organismi di cui si cibano i fenicotteri, che muoiono di fame e stanno abbandonando l’area (20).
Evidenze di una devastazione ambientale confermata anche dai dati elaborati dal Comité de Minería No Metálica del governo cileno, secondo il quale l’attività estrattiva preleva dalle salamoie 8.800 litri al secondo a fronte di una capacità di ricarica idrica di 6.800 litri: un bilancio negativo di 2.000 litri al secondo. Documenti del governo datati 2018, inoltre, indicano un’autorizzazione per l’utilizzo delle riserve di acqua dolce in favore di SQM – l’impresa che insieme alla statunitense Albemarle sfrutta i giacimenti cileni – di 240 litri al secondo: vale a dire, 20 milioni di litri al giorno. Basandosi sui dati del governo e sullo storico della produzione di Albemarle, E&T stima che dal 1985 al 2017 siano stati consumati dalla miniera complessivamente 433 miliardi di litri di acqua, con una proiezione per il periodo 2018-2043 che tocca 1,5 trilioni. Ulteriori segnali della scarsità d’acqua del salar sono stati portati alla luce da un’altra ispezione governativa, che ha rivelato come a partire dal 2013 il 32,4% degli alberi Algarrobo presenti sui terreni di proprietà di SQM stesse morendo: essendo una specie che tollera le condizioni di siccità, si tratta di un campanello d’allarme significativo, che è stato però ignorato dalla società estrattiva.
Seppur siano ancora pochi gli studi sui possibili effetti a lungo termine, e la maggior parte delle informazioni sull’impatto ambientale arrivi dalle imprese stesse, è del tutto evidente la devastazione causata dalle miniere di litio, e non solamente in Sud America. Vicino ai siti estrattivi cinesi in Tibet, tra il 2009 e il 2016 si sono verificati tre casi di probabile contaminazione del fiume Liqi, con centinaia di pesci e diversi esemplari di yak trovati morti: le proteste degli abitanti dei villaggi locali hanno portato ripetutamente alla chiusura dei siti, che hanno però riaperto nel 2019 (21). Negli Stati Uniti, dove l’unica miniera attiva è quella di Silver Peak, in Nevada, sono stati riportati casi di contaminazione dei corsi d’acqua fino a 250 km dai siti di estrazione (22).
Una non transizione
Degradazione del suolo, contaminazione e mancanza di acqua, inquinamento dell’aria, perdita di biodiversità. È ciò che accomuna da sempre le attività estrattive di risorse naturali condotte su larga scala e ad alta intensità, e il litio non fa eccezione al pari degli altri minerali strategici per la transizione (23). Che ha ben poco di green, ma non c’è da stupirsi: all’interno di un sistema in cui la sete di profitto di pochi guida le scelte sul futuro del pianeta, non esiste alcuna possibilità di raggiungere un punto di equilibrio tra le attività umane e la natura, perché quest’ultima è concepita esclusivamente come una risorsa da consumare. Ma è una risorsa finita. Così, minerali che hanno impiegato miliardi di anni a formarsi nel sottosuolo, vengono divorati dallo ‘sviluppo’ tecnologico capitalista, che in pochi anni li trasforma in rifiuti inquinanti: è il caso delle batterie al litio giunte a fine vita disperse nell’ambiente, che rilasciano sostanze chimiche e sono facilmente infiammabili. Secondo uno studio del Oeko-Institut del 2021 (24), all’interno della sola Unione europea ci saranno circa 75.000 tonnellate di batterie esauste nel 2025, con una proiezione per il 2030 che raggiunge quota 240.000, a fronte di una capacità di riciclo che per il 2019 è stata di 38.000 tonnellate all’anno (25). E ancora non sarà a pieno regime la diffusione dei veicoli elettrici.
Forse non siamo di fronte a una transizione, allora: ciò che ci aspetta, in fondo, non è niente di nuovo. Cambia la fase storica, cambiano le materie prime necessarie a sostenere l’evoluzione tecnologica e la produzione globale, e cambiano i bisogni indotti nella popolazione. Ma non può cambiare il capitalismo. È la sua natura.
1) Cfr. International Energy Agency, The role of critical minerals in clean energy transitions, marzo 2022
2) Cfr. U.S. Geological Survey, Mineral Commodity Summaries, gennaio 2022
3) Cfr Graham, J.D.; Rupp, J.A.; Brungard, E., Lithium in the Green Energy Transition: The Quest for Both Sustainability and Security. Sustainability 2021, 13, 11274. https://doi.org/10.3390/su132011274
4) U.S. Geological Survey, op. cit.
5) Cfr. http://en.tianqilithium.com/business/investment.html
6) Cfr. http://en.tianqilithium.com/business/index.html
7) Cfr. http://www.ganfenglithium.com/aboutz_en/id/4.html
8) Cfr. http://www.ganfenglithium.com/aboutz_en/id/1.html
9) Cfr. http://www.ganfenglithium.com/aboutz_en/id/2.html
10) Cfr. https://www.reuters.com/article/sinomine-zimbabwe-lithium-idUKL8N2Y43HA
11) Cfr. International Energy Agency, op. cit.
12) Cfr. https://www.benchmarkminerals.com/membership/chinas-lithium-ion-battery-supply-chain-dominance/
15) Cfr. https://www.bbc.com/future/article/20201124-how-geothermal-lithium-could-revolutionise-green-energy
16) Cfr. Flexer V., Baspineiro C. F., Inés Galli C., Lithium recovery from brines: A vital raw material for green energies with a potential environmental impact in its mining and processing, Science of the Total Environment 639 (2018) 1188–1204, https://doi.org/10.1016/j.scitotenv.2018.05.223
17) Cfr. https://www.wired.co.uk/article/lithium-batteries-environment-impact
18) Cfr. W. Liua, D. B. Agusdinataa, S. W. Myintb, Spatiotemporal patterns of lithium mining and environmental degradation in the Atacama Salt Flat, Chile, Int J Appl Earth Obs Geoinformation 80 (2019) 145–156, https://doi.org/10.1016/j.jag.2019.04.016
20) Cfr. J. S. Gutiérrez, J. N. Moore, J. P. Donnelly, C. Dorador, J. G. Navedo, N. R. Senner, Climate change and lithium mining influence flamingo abundance in the Lithium Triangle, The royal society (2022), https://doi.org/10.1098/rspb.2021.2388
22) Cfr. https://www.instituteforenergyresearch.org/renewable/the-environmental-impact-of-lithium-batteries/
23) Cfr. Giovanna Cracco, Capitalismo e ambientalismo. La transizione (non) ecologica, Paginauno n. 78, luglio/settembre 2022
24) Cfr. Oeko-Institut et al., Emerging waste streams – Challenges and opportunities, 2021
25) Cfr. P. Alves Dias, D. Blagoeva, C. Pavel, N. Arvanitidis, Cobalt: demand-supply balances in the transition to electric mobility, EUR 29381 EN, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2018, ISBN 978-92-79-94311-9, doi:10.2760/97710, JRC112285