Parrique T., Barth J., Briens F., C. Kerschner, Kraus-Polk A., Kuokkanen A., Spangenberg J.H.*
Transizione ecologica e sviluppo sostenibile. La seconda parte del Report di European Environmental Bureau analizza la fondatezza del decouplink (disaccoppiamento) tra crescita economica e pressioni ambientali: sta avvenendo?
Sezione Due. Il decouplink si sta verificando?
Il disaccoppiamento si verifica nella realtà e, se sì, che tipo di disaccoppiamento è? L’obiettivo di questa sezione è valutare la validità dell’ipotesi del decouplink alla luce della ricerca empirica esistente. Per farlo, conduciamo una revisione completa della letteratura di studi empirici che hanno testato l’ipotesi del disaccoppiamento. La discussione che segue è organizzata tematicamente, secondo le variabili ambientali considerate: 1. risorse (materiali, energia e acqua) e 2. impatti (gas serra, suolo, inquinanti dell’acqua e perdita di biodiversità). In entrambi i casi confrontiamo i risultati riportati negli studi, valutandoli rispetto alle diverse dimensioni presentate nella Sezione Uno di questo Report (1). Prima di immergerci nella letteratura empirica, vale la pena innanzitutto raccontare la storia di come gli scienziati siano arrivati a parlare di decouplink.
Negli anni ‘90, diversi economisti hanno condotto un lavoro empirico che li ha portati a credere che la crescita economica fosse correlata negativamente con le pressioni ambientali (2): gli impatti ambientali dapprima sarebbero aumentati, ma poi sarebbero diminuiti, in uno sviluppo a forma di campana rovesciata che è stato chiamato Environmental Kuznets Curve (EKC, “Curva di Kuznets ambientale” (3). Questa teoria aveva forti implicazioni politiche, poiché significava che una nazione poteva uscire da una crisi ecologica. L’ipotesi di ciò che il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP) ha chiamato un “disaccoppiamento attraverso la maturazione” ha ispirato numerosi studi nei decenni successivi, alla ricerca di EKC per una selezione di variabili ambientali. Oggi, tale ipotesi di ‘disaccoppiamento naturale’ ha perso terreno, sia nella scena scientifica che in quella politica, mentre è stato riconosciuto che il cambiamento strutturale delle economie che porta al decouplink è fortemente determinato dalle politiche messe in atto.
Il modo di studiare il decouplink si è quindi evoluto, passando da un fenomeno semi-naturale a qualcosa che può essere realizzato attraverso un intervento politico. In questa prospettiva, presenteremo una rassegna di recenti studi empirici che hanno tentato di identificare i fenomeni di disaccoppiamento, aggiungendosi a revisioni della letteratura esistente. Sebbene la revisione della letteratura che conduciamo sia una delle più complete e aggiornate, non è sistematica ed esauriente, quindi le affermazioni che portiamo sulla letteratura sul decouplink dovrebbero essere apprezzate per quanto riguarda il pool limitato di articoli presi in esame (vedi elenco in appendice). Vale anche la pena notare che la maggior parte degli studi ha a che fare con i Paesi sviluppati (con notevoli eccezioni, per esempio Wang et al., 2019), e quindi la nostra analisi sul disaccoppiamento dovrebbe essere intesa in quel contesto (4).
1. Disaccoppiamento delle risorse
Materiali
Quando si tratta di uso aggregato delle materie prime, l’evidenza è chiara e incontrovertibile: non c’è stato un decouplink assoluto tra l’uso delle risorse materiali e la crescita economica. In effetti, l’utilizzo globale è in aumento e il Pil mondiale è ancora strettamente associato alla loro estrazione. Qui e nel resto di questa sezione, se non diversamente indicato, gli effetti di disaccoppiamento sono stimati sulla base di variabili ambientali di produzione.
L’estrazione globale di materie prime è aumentata di un fattore 12 tra il 1900 e il 2015, con un’accelerazione costante dall’inizio del XXI secolo (5). Nel Novecento, l’uso medio pro capite delle risorse, a livello mondiale, è raddoppiato: nel 2005 un abitante ne richiedeva tra 8,5 e 9,2 tonnellate annuali, mentre cento anni prima erano 4,6 tonnellate (6). Solo negli ultimi quarant’anni, sempre a livello globale, l’uso totale di materiali è triplicato. L’impronta materiale delle nazioni OCSE nel suo insieme è aumentata di quasi il 50% tra il 1990 e il 2008, in relazione diretta con l’attività economica che ha registrato una crescita del 10% del Pil, accompagnata da un incremento del 6% dell’impronta materiale (7); alla fine, tra il 1900 e il 2009 l’intensità materiale del Pil pro capite è aumentata del 60% (8).
Gli obiettivi globali di impronta materiale sono meno condivisi degli obiettivi di carbonio, eppure un consenso emergente sostiene che, per rimanere ecologicamente sostenibile, il consumo di materiale deve essere limitato a un massimo annuo di 50 miliardi di tonnellate. Nel 2009, quel numero era già oltre, con 67,6 miliardi di tonnellate.
Un fatto sorprendente, mostrato in tutti gli studi, è che mentre l’economia mondiale si stava gradualmente de-materializzando da molto tempo, questa tendenza si è invertita negli ultimi due decenni. Mentre nel Novecento l’uso dei materiali si andava relativamente disaccoppiando dal Pil, la tendenza si è arrestata e invertita dall’inizio di questo secolo. Per esempio, Krausmann et al. (2018) mostrano che la variazione dell’intensità materiale è passata da 0,9% annuo negativo tra il 1945-2002, a 0,4% annuo positivo tra il 2002 e il 2015. Tentando lo stesso calcolo con un metodo diverso, Bithas e Kalimeris (2018) trovano diminuzioni totali di intensità materiale del 31,9% nell’intervallo 1900-1945, e del 48,9% per il 1950-2000, ma solo una diminuzione dello 0,6% tra il 2000 e il 2009. Giljum et al. (2014) lo chiamano ri-materializzazione, ossia l’opposto del disaccoppiamento, ovvero un aumento dell’intensità materiale dell’economia mondiale.
Fin dall’inizio, sembra che i Paesi ricchi ottengano un decouplink relativo più rapido rispetto ad altri. Tuttavia, questa performance svanisce quando si tiene conto dello spostamento dei costi, ovvero si esaminano i conti basati sul consumo. Per esempio, Wang et al. (2018) confrontano le misurazioni dell’uso delle risorse basate sul consumo (impronta materiale) e sulla produzione (consumo interno di materiale) per sei Paesi, tre dell’OCSE e tre delle economie nazionali emergenti (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, BRICS): Australia, Giappone, India e Stati Uniti riescono a disaccoppiarsi relativamente, ma solo perché spostano la loro fornitura di risorse materiali all’estero. Questo risultato è confermato sia da Bithas che da Kalimeris (2018), che segnalano un’intensità materiale stagnante a livello globale. Va notato che l’uso di determinati materiali diminuisce contro un Pil in aumento, ma spesso solo a livello locale. È il caso dell’alluminio negli Stati Uniti tra il 1985 e il 2009, controbilanciato dal fatto che quella stessa risorsa viene maggiormente estratta altrove, o da altri materiali il cui utilizzo aumenta ancora più velocemente; per esempio, nel periodo 1980-2002, l’estrazione globale di ferro e bauxite è cresciuta in quantità più rapidamente del Pil globale.
Energia
Il caso dell’energia è meno netto di quello dei materiali. Gli studi divergono nei risultati e sono difficili da confrontare, perché misurano il consumo di energia in modo diverso e lo fanno su differenti piani geografici.
Guardando ai consumi energetici finali territoriali nel periodo 1971-2004, Luzzati e Orsini (2009) non trovano evidenza di una Curva di Kuznets Ambientale, né su scala globale né a livello di singoli Paesi. Trovano invece che il rapporto tra Pil pro capite e consumo di energia è stabile, ed entrambi gli indicatori crescono in modo lineare. Semeniuk (2018) utilizza i dati di 180 Paesi tra il 1950 e il 2014, e rileva che l’intensità dell’energia primaria è costante con la crescita. Tuttavia, Csereklyei et al. (2016) trovano casi di disaccoppiamento, solo relativo, tra i consumi di energia primaria e il Pil di 99 Paesi, nel periodo 1970-2011. Wu et al. (2018) registrano tre casi di decouplink assoluto (Stati Uniti, Francia e Regno Unito) tra il 2005 e il 2015, utilizzando approcci basati sulla produzione (utilizzano indici che non specificano quanto sia effettivamente diminuito il consumo di energia), e un caso di decouplink relativo in Germania. Legno et al. (2018) trovano una tendenza relativa al disaccoppiamento globale tra consumi finali e Pil per il periodo 1995-2011. Tuttavia, è più comune trovare situazioni di decouplink relativo, principalmente a livello regionale: Ward et al.(2016) in Australia per il consumo finale di energia, Kovacic et al. (2018) in 14 Paesi dell’Ue (1995-2013) tra consumi energetici e ore di lavoro, Conrad e Cassar (2014) a Malta (1995-2012), e van Caneghem et al. (2010) nell’industria fiamminga (1995-2006). Eppure, come nel caso dei materiali, un decouplink in una regione spesso nasconde un ricongiungimento altrove.
Moreau e Vuille (2018) testano questa ipotesi utilizzando l’analisi input-output per la Svizzera, tra il 2000 e il 2014. Risultato: la diminuzione dell’intensità energetica finale territoriale sembra essere compensata da un aumento dell’energia incorporata nelle importazioni. Tenendo conto di ciò, l’intensità energetica rimane più o meno la stessa. In quello specifico studio, i volumi assoluti aumentano sia se misurati con un approccio territoriale (+1%, risultato di una diminuzione dell’intensità energetica domestica del 44% a fronte di un aumento di volume del 45%), sia quando si utilizza un approccio di footprint (+24,5%), anche se la differenza è significativa.
Esaminando il disaccoppiamento relativo, spesso citato, del consumo di energia dalla crescita economica nel Regno Unito negli ultimi 15 anni, Hardt et al. (2018) mostrano che la maggior parte dei miglioramenti dell’intensità energetica non è dovuta a una migliore efficienza, ma piuttosto alla delocalizzazione. L’illusione non è solo geografica, ma anche per ramo aziendale. Utilizzando dati settoriali per 18 Paesi dell’Ue tra il 1995 e il 2008, Naqvi e Zwickl (2017) scoprono che anche se in media si verifica un decouplink relativo in quasi tutti i settori, nessun Paese riesce a disaccoppiare in modo assoluto il consumo finale di energia e il Pil.
Infine, che il disaccoppiamento avvenga durante un certo periodo non garantisce il suo mantenimento nel tempo. Analizzando Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia e Slovacchia nel periodo 1990-2015, Szlavik e Szép (2017) mostrano che, se si è verificato un decouplink assoluto, è durato solo per brevi periodi e solo in luoghi specifici, per esempio in Polonia dal 2011 al 2014. Queste interruzioni effimere nel rapporto di accoppiamento sono il più delle volte spiegate da crisi economiche e ristrutturazioni politiche, e non dalla continua introduzione di tecnologie e pratiche sempre più efficienti.
Acqua
Il disaccoppiamento può essere osservato su una varietà di metriche di ‘uso’ dell’acqua, incluso il prelievo d’acqua (chiamato anche ‘estrazione’), che misura la quantità di acqua prelevata da una sorgente naturale (come un lago o un fiume), e il consumo d’acqua, che misura l’acqua utilizzata che non verrà restituita alla fonte e quindi non disponibile per il riutilizzo (9).
L’UNEP ha recentemente pubblicato un rapporto intitolato “Disaccoppiare la crescita economica dall’uso dell’acqua e dall’inquinamento idrico” (2015), che sostiene che utilizzando gli indicatori territoriali dell’utilizzo dell’acqua, molti Paesi hanno raggiunto un disaccoppiamento relativo, e questo vale per il mondo intero a partire dagli anni ‘40. Studi simili orientati alla produzione mostrano che il ritmo del decouplink è aumentato in modo significativo dopo gli anni ‘80, con l’intensità della produzione idrica globale in calo dell’1% annuo dal 1980 al 2000. La Cina è un esempio lampante, con un consumo di acqua rimasto costante dagli anni ‘80 accanto a diversi decenni di crescita economica a due cifre. Alcuni Paesi hanno anche sperimentato un disaccoppiamento assoluto: è il caso dell’Australia, che ha ridotto il consumo totale di acqua del 40% nel periodo 2001-2009, aumentando il Pil di oltre il 30%.
Per quanto promettenti possano sembrare questi numeri, il decouplink relativo tra acqua e guadagni di efficienza è stato più che annullato dall’espansione delle attività economiche, determinando un aumento netto del consumo di acqua. I Paesi o le regioni in via di industrializzazione, possono infatti ridurre il consumo complessivo di acqua diminuendo la produzione agricola. Tuttavia, tali diminuzioni in un luogo richiedono aumenti altrove, e anche l’industrializzazione efficiente dell’acqua spesso si traduce in un aumento netto dell’uso industriale dell’acqua. Anche i guadagni di efficienza in agricoltura possono talvolta generare effetti di rimbalzo, con conseguenti aumenti netti nell’uso dell’acqua. Un caso di studio è la città di Tianjin (Cina), pubblicizzata in tutto il mondo come la più grande città ecologica globale e come progetto per l’urbanizzazione sostenibile: in realtà è un perfetto esempio di decouplink relativo, che si traduce comunque in un aumento complessivo del consumo di acqua. Secondo una recente ricerca di Wang e Li (2018), l’uso industriale dell’acqua e la rapida crescita economica della città sono ancora strettamente legati, e forse ancora più di prima. I dati del 2005-2015 indicano che, sebbene il tasso di incremento medio del consumo di acqua industriale (+0,18%) sia stato inferiore all’aumento del Pil (+15,42%), periodi di crescita economica più rapida sono stati caratterizzati da un maggiore accoppiamento con il consumo di acqua industriale.
Proprio come per i materiali, è sufficiente guardare al consumo globale per rendersi conto che i guadagni di efficienza sono superati da aumenti di volume. A livello mondiale, Wada e Bierkens (2014) stimano che il consumo umano di acqua sia aumentato più del doppio (~250%) tra il 1960 e il 2010, la maggior parte del quale è attribuibile all’espansione dell’agricoltura irrigua. Per quanto riguarda il prelievo globale di acqua, il database AQUASTAT dell’Organizzazione per l’Alimentazione e l’Agricoltura (2016) mostra un’espansione leggermente inferiore da 2.500 km3/anno nel 1960 a quasi 7.000 km3/anno nel 2010. In alcune parti dell’Australia e della California, dove si può osservare un decouplink assoluto, il consumo di acqua rimane a livelli insostenibili, come evidenziato da un numero crescente di “siccità antropogeniche”. Questi esempi dovrebbero essere visti come casi di disaccoppiamento insufficiente.
Un’altra osservazione ha a che fare con l’acqua incorporata nel commercio. Analogamente alla questione dell’energia incorporata, la maggior parte degli studi sul disaccoppiamento sull’acqua non tiene conto della cosiddetta “acqua virtuale”, ossia l’acqua contenuta nei prodotti (per esempio, un chilo di carne bovina richiede circa 15.000 litri di acqua lungo l’intera catena di produzione). I Paesi ricchi riducono il loro consumo idrico interno importando dall’estero prodotti ad alta intensità idrica, spostando ad altri Paesi la loro impronta idrica e tutte le relative problematiche. Studi che tengono conto dell’impronta idrica scoprono che gli Stati ricchi che affrontano la scarsità d’acqua tendono a ridurre il consumo di acqua locale importando acqua virtuale. In uno studio transnazionale, Wang et al. (2016) confermano che il decouplink tra l’uso domestico dell’acqua e la crescita economica delle nazioni ad alto reddito avviene attraverso flussi d’acqua virtuali, incorporati nel commercio. Lo stesso risultato ottengono Feng e Hubacek (2015), che hanno utilizzato un’analisi input-output multiregione per comprendere i flussi d’acqua virtuali globali; nonché per altri studi che tentano di misurare questa esternalizzazione dell’impronta idrica.
2. Disaccoppiamento dell’impatto
Gas serra
Il caso dell’anidride carbonica è il più ambiguo di tutti e richiede una discussione dettagliata. La maggior parte degli studi trova modelli di decouplink relativo nei primi Paesi industrializzati e oltre, per esempio 79 Stati in Lonhofer e Jorgenson (2017), che esaminano il periodo 1970-2009. Alcuni studi segnalano addirittura casi di disaccoppiamento assoluto, anche se il più delle volte per brevi periodi, solo in luoghi specifici, e spesso utilizzando indicatori di produzione (territoriali). Questo potrebbe essere un motivo di gioia, ma sfortunatamente l’entità della diminuzione delle emissioni è trascurabile. Nel complesso, la letteratura esaminata converge nel dire che non c’è mai stato un modello globale di decouplink assoluto di CO2 dalla crescita economica. Ma esaminiamo i dettagli a partire dalla letteratura sulla Curva di Kuznets Ambientale.
Se non del tutto, l’esistenza di una EKC per le emissioni di CO2 può essere confermata solo all’interno di singoli studi. Le tre meta-analisi che abbiamo esaminato non trovano alcuna prova di disaccoppiamento nel periodo 1995-2005. Su 588 osservazioni, Li et al. (2007) non trovano un singolo caso di disaccoppiamento assoluto di CO2 nel periodo 1995-2005. Quello che trovano è un EKC per più gas serra locali (come SO2, NOx, CO, NO2 e Sox), ma a un punto di svolta del reddito pari a 37.000 dollari pro capite, che è sette volte più grande del Pil medio pro capite mondiale del 2000, e quindi praticamente irraggiungibile se miriamo a rimanere al di sotto dell’obiettivo di riscaldamento globale di 1,5°C. Koirala et al. (2011) hanno mobilitato circa 900 osservazioni da 103 studi per la loro meta-analisi, e non riescono a identificare alcun EKC di carbonio. La revisione più recente, di Mardani et al. (2019), punta nella stessa direzione: dopo aver esaminato 175 studi nel periodo 1995-2017, concludono: “Sebbene questo [decouplink] sia avvenuto in termini assoluti in alcuni Stati, la tendenza principale nei Paesi più sviluppati è che le emissioni sono in aumento o in stabilizzazione a un livello elevato. Difficilmente si può affermare che ci siano prove empiriche sufficienti per presumere che esista un EKC per le intensità di emissione di CO2”.
Il disaccoppiamento assoluto può essere individuato solo restringendo il campo di osservazione, cioè riducendo il periodo di studio o il perimetro geografico. Per esempio, Chen et al. (2018) analizzano le emissioni totali di 30 Paesi OCSE tra il 2001 e il 2015, e hanno scoperto che il Pil è aumentato del 70,6% con emissioni di CO2 in diminuzione del 3,8%, e la maggior parte del calo si è verificato tra il 2010 e il 2015. L’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA) riporta una riduzione assoluta delle emissioni di carbonio del 22% tra il 1990 e il 2017, una media di 49 MtCO2e all’anno. Madaleno e Moutinho trovano prove di un disaccoppiamento assoluto temporaneo nell’Ue-15 per le emissioni territoriali, ma solo tra il 1996 e il 1999 (l’intero periodo di studio è stato 1995-2014). Allo stesso modo, Roinioti e Koroneos hanno riscontrato due incidenze di decouplink assoluto temporaneo, rispettivamente della durata di uno e due anni per il caso della Grecia tra il 2003 e il 2013. Cansino e Moreno trovano un disaccoppiamento assoluto in Cile, ma solo per anni specifici del loro periodo di studio (1991-2013).
È più probabile che si verifichino casi di decouplink assoluto guardando ad aree geograficamente ristrette e prescindendo dalle relazioni e dagli scambi con il resto del mondo. Concentrandosi sugli indicatori di eco-efficienza per le industrie delle Fiandre, Van Caneghem et al. (2010) riportano un disaccoppiamento assoluto tra il 1995 e il 2006. Lo studio di Azam e Khan (2016) indica un decouplink assoluto avvenuto in Tanzania e Guatemala, utilizzando dati di serie temporali basati sulla produzione annuale dal 1975 al 2014. Ulteriori prove sono presentate da Lean e Smyth (2010) per Singapore, usando misure basate sulla produzione tra il 1980 e il 2006.
Quattro osservazioni su questi risultati.
In primo luogo, se c’è disaccoppiamento assoluto, rimane infinitesimale. Per esempio, il 3,8% in 14 anni è una performance scarsa – corrisponde a un tasso di crescita annuale composto di -0,28% annuo, 18 volte troppo lento rispetto all’obiettivo di una diminuzione del 5% annuale per non superare il riscaldamento globale di 1,5°. La diminuzione dell’8% delle emissioni tra il 2007 e il 2015, segnalata dall’Agenzia Internazionale per l’Energia, è solo un abbattimento annuo dell’1%; e il disaccoppiamento nell’Ue segnalato dalla Agenzia Europea dell’Ambiente dovrebbe essere aumentato di 5 volte per raggiungere un obiettivo di mitigazione del -95% per il 2050. Altri tassi di decouplink assoluto altrettanto scoraggianti sono stati rilevati da Pilatowska e Wlodarczyk (2018) in Belgio, Danimarca, Francia e Regno Unito (1960-2012). Nel loro studio comparativo, l’effetto più forte è stato in Danimarca, con -1,8% delle emissioni annuali accanto a un aumento dell’1,16% del Pil. Per quanto incoraggiante possa sembrare, secondo l’IPCC (2018) dovrebbe essere tre volte più veloce, e verificarsi simultaneamente in ogni singolo Paese, per rimanere entro il limite dell’aumento di 1,5°C del riscaldamento globale. Tutto ciò richiede un’accelerazione degli sforzi. Eppure, gli studi indicano il contrario: la velocità del decouplink nei Paesi ad alto reddito sta decelerando, poiché l’insieme delle misure di facile attuazione si sta esaurendo sempre più. Quanto accade è anche in linea con le attuali proiezioni di impatto politico dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (2018).
In secondo luogo, anche se il disaccoppiamento può essere individuato in un certo periodo, è probabile che scompaia se si estende il lasso di tempo oggetto dello studio. Wang et al. (2018) osservano diversi periodi negli Stati Uniti in cui le emissioni di CO2 legate all’energia diminuiscono insieme a un Pil in crescita: -1,75% (2000-2001), -1,61% (2005-2006) e tra -2 e -3,31% (2010-2012). Se lo studio avesse preso in considerazione solo questi periodi, si parlerebbe di un chiaro decouplink assoluto. Tuttavia, distribuita su un periodo più lungo (dal 2000 al 2014 nello studio), la diminuzione delle emissioni è ancora assoluta ma è in media dello 0,006% all’anno, pari a circa 833 volte troppo lenta rispetto alle raccomandazioni dell’IPCC. Inoltre, un motivo importante del declino è stato il passaggio dal carbone al gas, una misura una tantum facilitata dal boom temporaneo del petrolio e del gas di scisto negli Stati Uniti, che non può costituire una tendenza permanente.
Terzo, la maggior parte di questi studi tiene conto solo delle misure basate sulla produzione. Al contrario, quelli che assumono una prospettiva basata sul consumo trovano risultati notevolmente diversi. La più recente strategia per il clima a lungo termine proposta dalla Commissione europea, afferma che negli ultimi decenni l’Europa è riuscita a disaccoppiare con successo le emissioni di gas serra dalla crescita economica (10). Tuttavia, questo include solo le emissioni territoriali e non quelle sul consumo e sulle emissioni incorporate nel commercio internazionale. Secondo van de Lindt et al. (2017), mentre le emissioni territoriali sono diminuite del 13% nel periodo 1990-2010, l’impronta di carbonio è aumentata dell’8%. Allo stesso modo, Jiborn et al. (2018) mostrano che la Svezia e il Regno Unito (1995-2009) non rientrano nell’elenco di decouplink assoluto quando si considera la rilocalizzazione delle emissioni di carbonio. Ciò che resta è il disaccoppiamento relativo: un aumento del Pil (2,9% all’anno per il Regno Unito e 3,2% per la Svezia) si accompagna a un incremento minore, ma comunque in crescita, delle emissioni (1,8% per il Regno Unito e 1,3% per la Svezia). Cohen et al. (2018) raggiungono lo stesso risultato per Regno Unito e Francia (1990-2014): se le emissioni di gas serra basate sul consumo sono contabilizzate in base all’impronta, il decouplink assoluto scompare (l’eccezione è la Germania, a causa delle elevate esportazioni di emissioni dell’industria automobilistica). Stesso caso per Singapore, per il quale Schulz (2010) contrasta con il risultato di Lean e Smyth (2010), che dimostrano come il disaccoppiamento sia solo relativo una volta prese in considerazione le emissioni indirette legate al commercio. Anche solo in termini di decouplink relativo, la differenza è importante. Cohen et al. (2018) individuano dodici Paesi in tale situazione (Brasile, Messico, Turchia, Corea, Sudafrica, Indonesia, India, Cina, Canada, Giappone, Australia e Stati Uniti), considerando le emissioni territoriali, ma solo due (Regno Unito e Francia) quando viene misurata l’impronta dei gas serra. Storm e Schröder (2018) analizzano i dati di 61 Paesi dell’OCSE nel periodo 1995-2011, alla ricerca delle Curve di Kuznets del carbonio. Quello che sembra il decouplink delle emissioni di CO2 basate sulla produzione (con un punto di svolta a 56.000 dollari di reddito pro capite annuo), cessa di essere tale quando si tiene conto del carbonio importato (punto di svolta a 93.000 dollari, che è al di fuori del campione dello studio).
Infine, quarto punto: per le loro conseguenze sull’attività economica e quindi sulle emissioni, si dovrebbe tenere conto della crisi finanziaria globale del 2007-2008 e della successiva crisi dell’Eurozona. La rapida diminuzione delle emissioni durante la crisi non sorprende. La maggior parte degli studi che scompongono gli effetti di diverse variabili sulle emissioni di CO2 (consumo di energia, intensità energetica, intensità di carbonio, Pil) conclude che il Pil è uno dei maggiori fattori trainanti per le emissioni di CO2. La revisione di 175 studi di Mardani et al. (2019) punta anche a un accoppiamento bidirezionale tra Pil ed emissioni di CO2. Anche se forse una recessione riduce gli impatti a breve termine, difficilmente può essere considerato un successo politico in termini di decouplink per i sostenitori della crescita sostenibile.
Per finire, esaminiamo uno specifico studio di disaccoppiamento che è stato ampiamente diffuso nei media. Nel 2016, il World Resource Institute (WRI) ha pubblicato una voce sul suo sito web intitolata “Le strade per il decouplink: 21 Paesi stanno riducendo le emissioni di carbonio mentre crescono nel Pil”. Per essere precisi, mostrano prova di un disaccoppiamento assoluto del Pil dalle emissioni di gas serra territoriali, tra il 2000 e il 2014, in 21 Paesi. Anche se si prendono questi risultati alla lettera, la diminuzione delle emissioni rimane troppo piccola. Secondo la loro stima, la Stato con il decouplink più rapido è la Danimarca, con un taglio del 30% nel periodo. Sebbene il 30% possa sembrare impressionante, si tratta solo di una diminuzione annuale composta del 2,5%, che è la metà di quanto raccomandato dall’IPCC. La riduzione media per i 21 Paesi è del 15% in 14 anni (1,15% annuale, ancora quattro volte troppo lenta per gli standard IPCC di riduzione del 5% l’anno). Questo numero si riduce considerevolmente se si considerano le emissioni di impronta. Evans e Yeo (2016) rifanno il calcolo con indicatori basati sui consumi: tre paesi (Slovacchia, Svizzera e Ucraina) escono dall’elenco; lo sforzo danese di mitigazione delle emissioni si riduce dal 30% al 12%; mentre la riduzione media per i 20 Paesi che hanno ottenuto il disaccoppiamento territoriale (abbiamo rimosso l’Uzbekistan per il quale non sono disponibili dati sull’impronta) è del 15,75% totale, il decouplink dell’impronta è solo del 7,46% (ovvero 706,7 Mt di CO2 risparmiate in 14 anni), vale a dire un calo annuo composto dello 0,55%. E ancora, dovremmo ricordare che queste sono le nazioni di maggior successo in termini di mitigazione, e che il resto del mondo rimane sulla strada dell’aumento del Pil e dell’aumento delle emissioni.
Questi numeri dovrebbero essere letti con attenzione, poiché il calcolo delle emissioni di impronta è agli inizi ed estremamente complesso. Considerando i dati inesistenti e il livello di sofisticazione dei modelli attuali, è più probabile che sottovaluti le emissioni piuttosto che il contrario. Per esempio, le emissioni del trasporto aereo e marittimo sono sistematicamente escluse dai conti nazionali. Nell’Ue 28 (più Islanda, Norvegia, Svizzera), le emissioni di CO2 del solo trasporto aereo sono state stimate a 151 Mt nel 2014; sebbene siano aumentate solo del 5% dal 2000, si prevede che cresceranno di un altro 45% fino al 2035. Ipotizzando 150 Mt annuali, le emissioni di CO2 emesse nel periodo 2000-2014 ammontano a 2.100 Mt., ovvero tre volte tutte le emissioni risparmiate attraverso il decouplink assoluto in Evans e Yeo (2016).
Terra
Ci sono pochissimi studi empirici che hanno testato l’ipotesi del disaccoppiamento scegliendo le misure del territorio come variabili ambientali. Eppure, si possono trovare ampie prove nella letteratura che, con l’aumento del reddito, lo spazio vitale pro capite aumenta, e con esso l’area del terreno impermeabilizzato. Pertanto, questa sezione si concentra sulle relazioni generali tra Pil e utilizzo di suolo.
In letteratura vengono usate diverse definizioni per descrivere l’utilizzo di suolo. Weinzel et al. (2013) vi si riferiscono come “uso della terra e dell’area oceanica attraverso catene di approvvigionamento internazionali fino al consumo finale, modellando i prodotti agricoli, alimentari e forestali”, e lo misurano dall’utilizzo di suolo (gha/capita) o dalla frazione dell’impronta totale globale (%). Un’altra misura è l’appropriazione umana della produzione primaria netta (HANPP): l’ultimo termine è il carbonio totale prodotto annualmente dalla crescita delle piante, mentre il primo rappresenta la biomassa raccolta e il cambiamento dell’utilizzo di suolo indotto dall’uomo. Ulteriori misure sono l’impronta ecologica, e altri documenti si riferiscono solo a singole variabili, come i terreni coltivati.
La letteratura esistente non fornisce alcuna indicazione di un disaccoppiamento assoluto tra attività economica e utilizzo di suolo, solo di decouplink relativi. Conrad e Cassar (2014) ne trovano prove a Malta tra il 1995 e il 2012. A livello globale, l’impronta ecologica è cresciuta insieme alla crescita economica, senza mostrare segni di disaccoppiamento. Krausmann et al. (2013) registrano che mentre la popolazione umana è quadruplicata e la produzione economica cresciuta di 17 volte, l’appropriazione umana globale della produzione primaria netta è solo raddoppiata, a causa di considerevoli guadagni di efficienza tra il 1910 e il 2005. Per diverse misure e regioni, queste tendenze relative sono supportate anche da altri studi (11).
Prendiamo come esempio i terreni coltivati. A livello mondiale, la superficie coltivata per la produzione alimentare è aumentata del 32% dal 1963 al 2005, principalmente a causa dell’aumento della domanda calorica degli animali, essendo essa stessa fortemente influenzata dal reddito pro capite. Weinzel et al. (2013) affermano che per ogni raddoppio del reddito, l’impronta del suolo aumenta del 35%.
Non solo il reddito è correlato all’utilizzo di suolo, lo è anche allo spostamento netto di suolo, motivo per cui gli indicatori di impronta sono di grande importanza per comprendere la relazione tra attività economica e uso del suolo. Quando si tiene conto del commercio, i Paesi ad alto reddito utilizzano terreni pro capite biologicamente più produttivi rispetto ai Paesi a basso reddito. L’impronta del suolo dell’Ue era di 2,5 ettari globali (gha) per persona, rispetto a una media globale di 1,2 gha per persona e una biocapacità totale di 1,8 gha. Per ogni ulteriore reddito pro capite di 10.000 dollari, tra 0,1 e 0,4 gha pro capite vengono spostati fuori dal Paese consumatore. In totale, il 60% della terra viene utilizzato per le esportazioni, mentre i Paesi ad alto reddito sono i maggiori importatori netti. Per esempio, il 33% dell’utilizzo totale di suolo a fini di consumo degli Stati Uniti viene spostato da altri Paesi: questo rapporto diventa molto più ampio per l’Ue (oltre il 50%) e il Giappone (92%). Nel 2004, un cittadino medio dell’Ue ha portato a uno stanziamento di 2,53 gha rispetto a una media globale di 1,23 gha.
La produzione agricola è associata alle pressioni ambientali, e lo spostamento di terra attraverso il commercio internazionale significa che anche i costi ecologici vengono spostati. Le importazioni di colture e bestiame dell’Ue sono un fattore determinante della deforestazione globale nel periodo 1990-2008; per esempio, oltre il 90% degli impatti della Finlandia sulla biodiversità avviene altrove, attraverso le sue importazioni. Si prevede che i cambiamenti associati nell’utilizzo di suolo aumenteranno le emissioni di gas serra, di cui circa un quarto deriva già dall’uso del suolo e dai suoi cambiamenti. Schreinemachers e Tipraqsa (2012) rilevano che l’utilizzo di pesticidi, erbicidi e fungicidi non diminuisce quando i Paesi raggiungono redditi più elevati, e rimane fortemente associato alla produzione agricola. Questo mostra che la relazione dell’attività economica con l’utilizzo di suolo si collega anche ad altre sfide ambientali, come la perdita di biodiversità, la scarsità d’acqua, il cambiamento climatico e il consumo di energia.
Inquinanti dell’acqua
Il suddetto rapporto UNEP si basa sulla ricerca sul decouplink dell’acqua, o sulla “disidratazione” che non tiene esplicitamente conto dell’inquinamento idrico. Sebbene siano stati compiuti importanti progressi nella sua limitazione nella produzione industriale e agricola, la contaminazione dell’acqua rimane un problema globale che contribuisce ad aumentare i punti critici di inquinamento idrico globale. La maggior parte proviene dalla produzione di prodotti industriali e agricoli per il commercio regionale e globale.
Il concetto di ‘flusso di ritorno’, ovvero la differenza tra prelievo e consumo, è fondamentale per la comprensione dell’inquinamento dell’acqua: esso concentra gli impatti dell’inquinamento della produzione dipendente dall’acqua. La pulizia dei flussi di ritorno può essere ottenuta grazie ai progressi nelle tecnologie di produzione più pulite, spesso spinti dalla creazione e dall’applicazione di normative ambientali. Queste tecnologie hanno costi elevati, che possono indurre lo spostamento della produzione in aree con meno normative ambientali relative all’inquinamento delle acque, o normative meno applicate. Come notato nella revisione di Schwarzenbach et al. (2010) sull’inquinamento idrico globale e la salute umana, la produzione a basso costo nelle economie emergenti continua a essere associata a livelli elevati di inquinamento idrico. L’esternalizzazione di produzioni tossiche e ad alta intensità idrica può portare a disaccoppiare la crescita economica locale, regionale e nazionale dagli impatti sulla qualità dell’acqua a livello di bacino, tuttavia, su scala globale, i problemi rimangono invariati, o in alcuni casi si aggravano.
L’accumulo di azoto e fosforo, i due principali macro-nutrienti necessari per la produzione agricola, portando all’eutrofizzazione e alle zone morte negli ecosistemi acquatici, che si sono diffusi in modo esponenziale dagli anni ‘60. L’azoto viene rilasciato anche nell’atmosfera, dove in forma reattiva ha un effetto di gas serra maggiore rispetto all’anidride carbonica. Gli indici di utilizzo di fertilizzanti di azoto e fosforo per unità di superficie coltivata sono aumentati rispettivamente di circa 8 volte e 3 volte dal 1961. Secondo Lu e Tian (2017), il tasso di fertilizzanti è aumentato di 0,8 g N/g P per decennio nel periodo 1961-2013, con implicazioni di origine umana sui cambiamenti climatici, sulla qualità dell’acqua e sugli ecosistemi, sulla sicurezza alimentare e sugli ecosistemi agricoli in generale. Inoltre, le recenti prospettive sulla domanda di fertilizzanti mostrano che continua a crescere anche nei Paesi ricchi, in Nord America e in Europa.
I flussi biochimici globali di azoto e fosforo hanno oltrepassato i loro limiti planetari. Questo deriva principalmente dalla prevalenza dell’agricoltura ad alto input e dall’allevamento intensivo di bestiame, che portano all’inquinamento atmosferico da azoto, all’eutrofizzazione dalla costa marina e alle zone morte. Lo scarico di nutrienti agricoli è il contributo più significativo alla contaminazione delle acque sotterranee e superficiali, molto più grande delle fonti urbane. Uno studio che esplora i cambiamenti nei cicli dell’azoto e del fosforo nell’agricoltura indotti dalla produzione di bestiame nel periodo 1900-2050, mostra che gli input di azoto e fosforo antropogenici sono cresciuti di cinque volte dall’epoca pre-industriale, e si prevede che entro il 2050 le eccedenze aumenteranno ulteriormente di oltre il 20% per l’azoto e oltre il 50% per il fosforo.
Perdita di biodiversità
La biodiversità è difficile da misurare (12), ma né gli indicatori individuali né quelli aggregati hanno mostrato miglioramenti significativi nei loro tassi di declino, mentre tutti gli indici di pressione hanno evidenziato tendenze crescenti, senza che nessuno decelerasse significativamente. L’ultimo rapporto della Piattaforma Intergovernativa di Politica Scientifica sulla Biodiversità e i Servizi Ecosistemici ha mostrato che quasi tutti i fattori di perdita di biodiversità continuano ad aumentare; che il pericoloso declino della biodiversità è senza precedenti; che i tassi di estinzione delle specie stanno accelerando; e che l’attuale risposta globale è insufficiente. Andando nella stessa direzione, le prospettive Ue 2030 per le condizioni e i servizi ecosistemici e l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) segnalano livelli preoccupanti di declino delle specie. Analizzando i tassi di estinzione rispetto ai tassi storici medi naturali dal 1500 d.C., Ceballos et al. (2015) trovano che l’indice attuale supera di gran lunga la media naturale, e avvertono di un’imminente sesta estinzione di massa.
La letteratura empirica sulle relazioni EKC tra biodiversità e crescita economica è scarsa, ma coerente. La prima meta-analisi ha utilizzato 121 osservazioni raccolte da una serie di 25 studi e 11 indicatori ambientali, inclusa la deforestazione. Lo studio ha analizzato la relazione EKC e stimato gli ipotetici punti di svolta del reddito, utilizzando diversi metodi di modellazione. Per la deforestazione, utilizzata come proxy della perdita di biodiversità (13), la svolta reddituale è stata stimata in un range di 5.000-20.000 dollari (ai prezzi del 1999). Koirala et al. (2011) hanno utilizzato quasi 900 osservazioni da 103 studi per la loro meta-analisi, hanno disaggregato le misure di qualità ambientale in 12 variabili diverse, e non hanno osservato alcun EKC né per la deforestazione né per il degrado del paesaggio/habitat. Dietz e Adger (2003) non trovano alcun EKC per la deforestazione e la ricchezza delle specie, un risultato confermato da Mills e Waite (2009). Ancora più forte è l’argomento di Asafu-Adjaye (2003), che trova una relazione inversa tra crescita economica e diversità delle specie – un risultato confermato da Raymond (2004) in uno studio su 142 Paesi. Mozumder et al. (2006) rifiutano l’ipotesi EKC per il reddito e il rischio di biodiversità. Utilizzando lo stesso modello, Tevie et al. (2011) giungono alla medesima conclusione nel loro studio su 48 Stati americani. Naidoo & Adamowicz (2001), utilizzando dati provenienti da oltre 100 Paesi, hanno studiato il legame tra il numero di specie minacciate e la crescita del reddito pro capite: dopo aver diviso le specie in sette gruppi tassonomici (piante, mammiferi, uccelli, anfibi, rettili, pesci, invertebrati), hanno trovato supporto per il disaccoppiamento assoluto solo per gli uccelli. Nel frattempo, per piante, anfibi, rettili e invertebrati la relazione era opposta: il numero di specie minacciate aumentava con il Pil.
Conclusioni per la Sezione DUE
Alla luce della presente revisione, possiamo concludere con sicurezza che non ci sono prove empiriche a sostegno dell’esistenza di un decouplink del tipo descritto come necessario nella prima sezione di questo rapporto, ovvero un disaccoppiamento assoluto, globale, permanente, sufficientemente rapido e ampio delle pressioni ambientali (risorse e impatti) dalla crescita economica. Alla fine, la nostra ricerca di prove solide non ha avuto successo, presentando solo una manciata di eccezioni metodologicamente peculiari, il più delle volte di decouplink relativo e, se assolute, principalmente temporanee e ristrette nello spazio, solo per indicatori territoriali (vale a dire spazialmente incoerenti) o che hanno a che fare con specifici inquinanti locali a breve termine. In tutti i casi, la riduzione delle pressioni ambientali non è all’altezza degli attuali obiettivi di politica ambientale.
Tuttavia, anche se il successo della strategia di una ‘crescita sostenibile’ non si vede da nessuna parte, questa mancanza di supporto empirico non consente di respingere completamente l’ipotesi del disaccoppiamento. L’adeguato decouplink tra attività economica e pressioni ambientali rimane teoricamente possibile, se la produttività delle risorse cresce, in modo permanente e globale, sufficientemente più veloce del Pil. Ciò potrebbe accadere, secondo alcuni, aumentando la copertura geografica dei sistemi di scambio di emissioni, in combinazione con l’eliminazione graduale dei sussidi per i combustibili fossili, dirigendo gli investimenti in infrastrutture sostenibili e attuando una serie di altre politiche di disaccoppiamento. Ciò che è qui in discussione è l’impatto di una serie di fattori, tendenze, e fenomeni che consentirebbero o impedirebbero il verificarsi di un tale decouplink, guidato dall’efficienza. Mettere in prospettiva l’ipotesi del disaccoppiamento con il potenziale impatto di tali fattori è l’obiettivo della sezione finale della presente relazione.
… continua…
Qui la quarta e ultima parte del Report
* Decouplink Debunked, Evidence and arguments against green growth as a sole strategy for sustainability, luglio/ottobre 2019. Report pubblicato da European Environmental Bureau, un’associazione internazionale no-profit composta da una rete europea di 180 organizzazioni ambientaliste di 38 Paesi. Il Report è sotto diritti Creative Commons https://meta.eeb.org/ about/ e la traduzione in italiano è a cura di Paginauno. Il Report è pubblicato suddiviso in quattro parti
1) Cfr. Decouplink Debunked Prove e argomentazioni contro la crescita green come unica strategia per la sostenibilità,Paginauno n. 80 dicembre 2022/gennaio 2023. Nota di redazione
2) Grossman e Krueger (1991) hanno studiato gli inquinanti atmosferici (anidride solforosa e altri particolati); Shafik e Bandyopadhyay (1992) si sono concentrati su inquinamento delle acque, rifiuti urbani, particolato, anidride solforosa, deforestazione ed emissioni di carbonio; e Panayotou (1993) ha considerato una serie di indicatori ambientali simili
3) Nel 1955, Simon Kuznets elaborò la teoria secondo la quale, nel processo di espansione dell’attività economica, la disuguaglianza prima aumentava al massimo e poi diminuiva, formando così una curva a forma di U rovesciata
4) Questo non vuol dire che il decouplink sia più facile nel Sud del mondo; né intendiamo dire che le questioni in esame in questo Rapporto riguardano esclusivamente il Nord globale; la sostenibilità ecologica dovrebbe essere motivo di preoccupazione per tutti. Tuttavia, assumiamo che se il Nord globale non riesce a disaccoppiarsi, sarà difficile giustificare il motivo per cui il decouplink dovrebbe avvenire nei Paesi a basso reddito e tecnologicamente meno avanzati
5) L’estrazione globale di materie prime è aumentata del 53% tra il 2002 e il 2015, il che significa che “circa un terzo di tutti i materiali estratti dal 1900 è stato mobilitato solo tra il 2002 e il 2015” (Krausmann et al., 2018, p.139)
6) Schandl et al. (2018, p.4) osservano che la maggior parte di questo aumento è recente. In effetti, l’estrazione media globale di materie prime è aumentata da 7 tonnellate pro capite nel 1970 a 10 nel 2010
7) Bithas e Kalimeris (2018) confermano questa dipendenza dell’economia globale dalle risorse naturali. Calcolano che il consumo pro capite globale di risorse di massa è cresciuto del 78,7% nell’ultimo secolo (1900-2002); ciò significa che un aumento di 4,8 volte del reddito globale ha portato a un incremento di 8,5 volte del flusso di massa. Considerando la biomassa, i vettori energetici fossili, i minerali e i minerali industriali e i minerali da costruzione, Krausmann et al. (2018) calcolano che l’uso globale di materiali è aumentato di un fattore 12 nel periodo 1900-2015, con un marcato spostamento dal predominio della biomassa rinnovabile verso i materiali minerali
8) Stesso risultato per Giljum et al. (2014): crescita del 93,4% del consumo globale tra il 1980 e il 2009, che diventa del 132% se esteso all’anno 2013 (“The Material Flow Analysis Portal”, 2015). Ancora una volta, quel tasso aumenta all’inizio del secolo: circa il 2,5% di incremento medio annuo nel periodo, ma del 3,4% tra il 2000 e il 2009 (Giljum et al., 2014) o del 3,85% tra il 2002 e il 2013 (Materialflows.net , 2015)
9) Il decouplink può essere osservato anche tra prelievo e inquinamento, nonché sull’utilizzo pro capite o totale all’interno di diversi settori economici che utilizzano l’acqua, di cui parleremo nella prossima parte sul disaccoppiamento dell’impatto
10) Il documento di riflessione sugli “Obiettivi di Sviluppo Sostenibile” (Parlamento europeo, 2019) parla di un disaccoppiamento assoluto basato sui consumi, mentre fa riferimento all’analisi delle sue strategie a lungo termine (Commissione europea, 2018). Oltre a tale affermazione, tuttavia, non abbiamo trovato traccia di alcuna prova a sostegno in nessuno di questi documenti
11) Uno sguardo più attento all’impronta ecologica dei Paesi e alla loro biocapacità disponibile evidenzia un caso interessante nella Finlandia, la cui impronta ecologica è diminuita del 6,5% nel periodo 2002-2005, mentre il PilL è aumentato del 9,5%, rimanendo anche nei limiti della biocapacità disponibile. Tuttavia, ciò è dovuto principalmente a una contabilità errata, come ha mostrato Mattila (2012)
12) Vačkář et al. (2012) forniscono una rassegna completa di diversi indici che monitorano gli impatti umani sulla biodiversità. Uno dei più conosciuti è il Living Planet Index, che mostra il cambiamento nell’abbondanza e nella distribuzione delle specie. Gli altri indicatori sono: Indice della Lista Rossa che misura le variazioni del rischio di estinzione (raccolto dalla IUCN), Indice del Trofico Marino specializzato per la biodiversità marina, Indice del Capitale Naturale, composto dai cambiamenti nella quantità e qualità degli ecosistemi, Indice di Integrità della Biodiversità, che misura entrambe le caratteristiche, ricchezza e abbondanza di popolazione, e Indice di Integrità Biologica, che valuta gli ecosistemi rispetto a uno stato di riferimento in base a vari impatti umani. Un altro indice è il National Biodiversity Risk Assessment Index, che non viene aggiornato regolarmente
13) Si dovrebbe essere cauti con l’inferenza e l’interpretazione dei dati. Per esempio, il reddito pro capite sembra essere correlato all’area territoriale protetta dallo Stato, tuttavia, piuttosto come parte di vari indicatori socio-economici (sociali, economici, culturali e naturali) che indipendentemente da solo. Inoltre, le aree protette non garantiscono una maggiore conservazione della biodiversità. In alcuni studi precedenti che hanno rilevato EKC, il problema potrebbe essere nel modo in cui viene interpretata la biodiversità. Il rimboschimento attraverso le piantagioni non equivale alla deforestazione delle foreste pluviali primarie, con le specie che le accompagnano. Nel frattempo, McPherson & Nieswiadomy (2005) hanno identificato un EKC per specie di uccelli e mammiferi minacciati (utilizzando i dati IUCN per 113 Paesi nel 2000), e un potenziale punto di svolta a circa 10.000-15.000 dollari nel reddito pro capite, dopo il quale la percentuale minaccia di diminuire. Tuttavia, il problema con i dati IUCN è che il tasso di specie in via di estinzione, o il tasso di deforestazione, possono essere bassi in Paesi che hanno già sperimentato molta estinzione o deforestazione in passato. Quindi, usano la percentuale invece del numero di specie e apportano una serie di altre correzioni al set di dati